sabato 11 luglio 2020
Nel suo nuovo libro la scrittrice ripercorre il lockdown nella prospettiva del sottosuolo: «Non tutto può essere spiegato, adesso serve più immaginazione»
La scrittrice Paola Mastrocola

La scrittrice Paola Mastrocola - Boato

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Talpa sì, ma con una passione per il mare aperto, oltre che per tane, cunicoli e tunnel. «Questa estate – dice Paola Mastrocola – mi auguro che tutti possano passare almeno un paio di giorni in spiaggia. Ce li meritiamo, dopo tanto confinamento. Quanto a me, confesso che andare al mare non mi basta. Ho bisogno di stare sul mare, meglio ancora in acqua. Soltanto così riesco a percepire la vastità dell’infinito». È un libro estroso e curioso, questo Diario di una talpa che la scrittrice torinese ha appena pubblicato per La nave di Teseo (pagine 208, euro 17,00). Immedesimandosi in questa creatura del sottosuolo, e disegnandone le avventure con divertito tratto infantile, Mastrocola ripercorre il tempo della grande emergenza: quello, appunto, in cui tutti noi ci siamo un po’ trasformati in talpe. «Sì, ma non generalizziamo », ribatte l’autrice.

In che senso?

Nel senso che c’è talpa e talpa. La specie autentica, alla quale sono felice di appartenere, è quella delle talpe croniche, che praticano il nascondimento indipendentemente dalle condizioni esterne. Le altre sono talpe temporanee, che non mettono il muso fuori solo se proprio non possono fare altrimenti, ma poi sono prontissime a ritornare gli animali che erano. Noi talpe croniche, al massimo, ci spostiamo da una galleria all’altra. Dipende dalla predisposizione interiore, non c’è niente da fare.

Sì, ma ora ci ritroviamo tutti sotto il sole, non le pare?

Vero, in questo momento siamo usciti all’aria aperta, ma la mia impressione è che sia una tregua o, meglio, uno stato d’attesa. Complice l’estate, ci stiamo prendendo una vacanza dalla paura, perché questo è stato e continua a essere il problema: non il virus, di cui sappiamo ancora abbastanza poco, ma la paura universale, che rischia di paralizzare il mondo intero.

Non la sento troppo ottimista.

Non è questione di ottimismo o pessimismo. Semmai, non riesco a farmi incantare dalla retorica del pensiero positivo, dell’“andrà tutto bene”. Queste frasi fatte possono andar bene in una serie tv, ma che non rispettano la complessità del mondo reale, nel quale la speranza non è meno presente della paura. Ed è alla speranza che occorre affidarsi adesso.

Si riferisce ai «focolai di utopia» di cui scrive nel libro?

Sono la mia speranza, esatto, e nello stesso tempo la mia disperazione. Vorrei che si moltiplicassero, ma non ne vedo traccia. L’unico modo per rendere giustizia alle vittime di questo periodo sarebbe uno slancio collettivo di immaginazione. Abbiamo l’occasione, per quanto dolorosa, di cambiare il mondo e invece ci accontentiamo di tornare alla situazione di prima, senza fare il minimo sforzo di pensiero. Parlo di pensiero, che sarebbe già molto. L’attuazione resterebbe difficoltosa, ma avremmo un punto di partenza.

Lei ha già in mente qualcosa?

Qualcosa sì, ma sono ragionamenti da talpa, fatalmente limitati, non fosse altro per via della vista debole. Diciamo che mi faccio qualche domanda.

Per esempio?

Ci serve ancora tutto quello che avevamo prima? Tutti quei ristoranti, tutte quelle distrazioni? Non è che di qualche soddisfazione, d’ora in poi, possiamo fare a meno? Oppure vogliamo rinunciare all’utopia perché altrimenti ci toccherebbe rinunciare alle vecchie abitudini?

Beh, c’è di mezzo anche il lavoro del ristoratore, no?

Non solo il suo, se è per questo. Ma i mestieri muoiono e nascono. La sfida sta tutta qui, nel riconoscere che si è messo in atto un processo che, pur non essendo semplice né breve, non può in alcun modo essere ignorato.

Lei ha scritto molto di scuola: non trova che lì il cambiamento sia già evidente?

Da qualche anno non insegno più e quindi non ho avuto esperienza diretta della didattica a distanza. Proprio per questo mi sento di affermare che i miei colleghi hanno svolto un lavoro ammirevole. Non c’era altro da fare, d’accordo, e lo hanno fatto benissimo, incuranti delle difficoltà e della fatica. Adesso però la scuola deve riaprire, ripartire.

Come?

Anzitutto con una diversa consapevolezza del valore di alcune professioni, come quella dell’insegnante. Di qualcosa saremo costretti a fare a meno, lo ripeto, e di conseguenza è sull’indispensabile che abbiamo il dovere di concentrarci.

È vero che in quarantena non riusciva a leggere?

Verissimo, e non sono stata la sola. In quelle settimane mi sono resa conto con chiarezza che la lettura ha a che fare con il piacere e con la libertà. Leggere è un lusso che è difficile concedersi quando si è attorniati da notizie luttuose. Una frivolezza, se mi passa il termine.

Questa è una parola che le piace molto.

Forse perché normalmente la maltrattiamo, adoperandola con una connotazione negativa. Dal punto di vista etimologico, invece, rimanda alla friabilità e, di conseguenza, alla fragilità. Ci riguarda moltissimo, perché ci fa sentire liberi e imprendibili. La frivolezza ha l’apparenza di un capriccio, ma ci ricorda la materia di cui siamo fatti. Ha in sé il seme della gratuità, quel minuscolo segreto che distingue, tra l’altro, il passeggiare da camminare. La differenza è tutt’altro che trascurabile: durante la quarantena era concesso camminare, ma era di passeggiare che avevamo voglia...

E adesso?

Adesso siamo tornati a prendere scorciatoie inutili e a scoprire stradine segrete, ma ci resta un’altra esplorazione da portare a termine: quella dell’insondabile o, se preferisce, del mistero di cui il virus è l’immagine. La scienza fa benissimo a insistere nello studiarlo e ci sarà da festeggiare quando finalmente sarà messo a punto il vaccino e individuata la cura. Nonostante questo, resterà sempre qualcosa di inspiegabile.

Perché?

Perché non tutto può essere spiegato, ormai dovremmo essercene convinti. Lo aveva intuito con esattezza Leopardi, nel famoso dialogo tra la Natura e l’Islandese: gli esseri umani sono alla mercé di una forza che li sovrasta e che non riusciranno mai a controllare pienamente. Ma accettare il fatto che qualcosa ci sfugge non è soltanto un’ammissione di impotenza. Al contrario, rende possibile uno sguardo contemplativo sulla realtà. Ci rende più umani.

Gli scrittori sono tutti talpe?

Lo sarebbero, in linea di massima. Alcuni però hanno una gran smania di andare in giro, muoversi, farsi vedere. Penso che sia giusto lasciarli fare. A me è sufficiente la mia tana. E il mare, si capisce. Al mare no, non posso rinunciare.

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