mercoledì 17 novembre 2010
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Definirle custodi della me­moria è riduttivo. Da anni migliaia di bosniache cer­cano i resti dei loro padri, mariti, figli e fidanzati, inghiottiti dalla pulizia etnica. Un’indagine silen­ziosa, intercettata dal reporter polacco Wojciech Tochman. Clas­se ’69, originario di Cracovia e quasi sconosciuto in Italia, da vent’anni collabora con la "Gaze­ta Wyborcza", il più importante quotidiano del suo Paese, e ha già pubblicato sei raccolte di reporta­ge, tradotte in undici lingue.Dal 2000 al 2003 ha seguito un’antro­pologa, Eva Elvira Klo­nowski, che nelle fosse comuni e non solo ha già riesumato le ossa di duemila vittime. «Li ha ripescati dai pozzi, tirati fuori dalle grotte, estratti da una discari­ca o da un’accozzaglia di ossa suine», scrive Tochman. Di origine polacca, membro dell’Accademia ameri­cana di Scienze forensi, l’esperta lavora in Bosnia-Erzegovina dal ’96, tentando di dare un’identità agli scomparsi. Restituendoli a chi non li ha mai dimenticati: so­no loro, donne e altri familiari, i protagonisti di "Come se mangiassi pietre" (Keller, pagine 144, euro 14,00), presentato nel tardo po­meriggio di ieri a Palazzo Blu­menstihl, sede dell’Istituto polac­co di Roma. Con questo esempio del genere definito in Polonia "letteratura di fatto", il giornalista e scrittore è arrivato in finale ai premi "Nike" Polonia e "Témoin du Monde", concesso da Radio France Internationale.Già uscito in vari Paesi – dalla Francia a Gran Bretagna e Stati Uniti –, il volume è stato tradotto in italiano da Marzena Borejczuk su incarico di Roberto Keller, lo stesso editore che per primo in Italia ha pubbli­cato Herta Müller, Nobel per la letteratura 2009. A dare il titolo al libro di Tochman è una frase del figlio di Halima, quarantadue an­ni, che non sa più nulla del mari­to e a volte lo rivede in sogno, fa­cendo stridere i denti. «Ho sgra­nocchiato? Mi dispiace», dice al bambino, che paragona quello strano rumore che lo sveglia al masticare sassi. Qualcosa di du­rissimo da digerire e rielaborare, anche se «il mondo esiste».L’idea di realizzare questo repor­tage è nata constatando che alla fine dei conflitti si spengono i ri­flettori e i giornalisti partono «di gran fretta per altre guerre»?«Dal 1992 per due anni sono an­dato in Bosnia a portare aiuti u­manitari insieme ad associazioni non profit polacche e francesi. Sono tornato dopo il 2000, pen­sando di scrivere un reportage sui soldati Onu che ancora staziona­vano nei territori e abusavano delle donne del posto. Poi qualcu­no mi ha parlato della dottoressa. Ci siamo incontrati e ha iniziato a raccontarmi del suo lavoro. In quel momento ho capito che si sta spalancando davanti a me un tema enorme, che riguardava ar­gomenti universali. Pensai che non sarebbe stato un racconto sulle ossa, ma della responsabilità dei vivi sui morti, della vita e della risurrezione».Le sue pagine danno voce alle persone incontrate. Un modo per non archiviare il passato, per non rimuovere la storia recente?«Quando scrivo cerco di avvicina­re i protagonisti al lettore, sia che si tratti di Bosnia che di Ruanda, a cui ho dedicato il mio ultimo li­bro. Per me è molto importante che chi legge riesca a provare em­patia e a condividere la sofferenza delle persone che racconto, pur se in minima parte. Vorrei non solo che sapesse e ricordasse, ma che prendesse su di sé almeno un pezzettino di questo dolore pro­vocato dalla perdita dei propri ca­ri, simile per il bosniaco come per il tutsi. Nonostante tutte le diffe­renze culturali, le leggi dei senti­menti sono identiche: anche la paura ci accomuna in tutto il mondo, come il non voler vedere ciò che succede intorno a noi. Nella storia tutti i genocidi, oltre allo sterminio di un popolo, vole­vano cancellarne la memoria. Non dico di rimuginare ossessiva­mente sulle vittime, ma che ci sia almeno un attimo in cui si pensa a loro, si prega per loro. Altrimenti siamo dalla parte degli esecutori che volevano ottenere l’oblio».Ha già pubblicato varie raccolte di reportage. Cosa ama racconta­re?«Il mio prossimo libro, sul genoci­dio in Ruanda, uscirà il 24 novem­bre in Polonia. Mi sto occupando di bambini e ragazzi manipolati dai regimi perché uccidessero. Oggi sono adulti, assassini e vitti­me allo stesso tempo. Oltre allo scenario storico, che fa da sfondo, ciò che mi interessa è la psicolo­gia che sta dietro i genocidi. Ma non c’è il bianco o il nero. Anche il testimone in qualche modo par­tecipa e oggi chiunque di noi lo è attraverso i media, ma la maggio- ranza fa finta di non vedere… U­na reazione umana comprensibi-­le, ma ciascuno può fare qualcosa nel quotidiano, in quanto elettore e cittadino. La lezione di un inse­gnante, l’omelia di un prete, la partecipazione a un’Ong...». Ha conosciuto Ryszard Kapu­scinski, noto giornalista e scritto­re polacco scomparso nel 2007? Avverte di avere un approccio si­mile alla realtà?«Non mi piace definirmi un suo epigono, perché molti in Polonia si vantano di averlo frequentato. E mi auguro che il mio sguardo sul mondo sia diverso dal suo, perché lui stesso mi ha insegnato come maestro a fare così, come a docu­mentarsi con tutti i materiali pos­sibili sull’argomento che si inten­de affrontare. A un certo punto bisogna mettersi a scrivere, sco­prendo una verità antica e fru­strante: più sai e meno sai…».
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