giovedì 28 luglio 2016
Nocenzi, il Mutuo Soccorso andata e ritorno
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Aveva scelto la strada della ricerca «per disamore verso il declino della cultura musicale in Italia»; ed era dal 1993 che Gianni Nocenzi non realizzava un disco, peraltro distanziato dal precedente di cinque anni e dall’addio al Banco del Mutuo Soccorso di quasi dieci. E ora che Nocenzi, fondatore di una delle più importanti e innovative band italiane nel 1972 assieme al fratello Vittorio, e fino a fine anni Ottanta protagonista nel Banco di pagine celebri e splendide del rock-progressive e del rock-pop più nobile (con dischi quali Darwin!, Io sono nato libero, Come in un’ultima cena, e canzoni tipo Paolo Pà o Moby Dick), ora che Nocenzi, pianista e compositore classe ’52, torna ai dischi con Miniature di piano solo, è evidente che si tratta di un richiamo dell’anima.È evidente all’ascolto del cd, colto e moderno, di melodia e puntinismi, fatto come si dovrebbe sempre fare di piani e forti, mai costruito sempre “sentito”; ed è palese nella dedica esplicita a Francesco Di Giacomo (cantante e poeta del Banco, morto nel 2014 in un incidente), a Rodolfo Maltese (trombettista e chitarrista della band, stroncato da un tumore nel 2015) e al fratello maggiore Vittorio (anima compositiva del gruppo, colpito da emorragia cerebrale un anno fa). Ma è poi parlando con Gianni Nocenzi, che si coglie in toto quanto Miniature sia stato esigenza e non omaggio, vita e non come mestiere. «Noi del Banco siamo cresciuti insieme, una famiglia, Rodolfo e Francesco erano altri fratelli maggiori per me. E per farcela a curare me stesso dopo tutte queste tragedie l’unico rito laico che conoscevo era suonare. Senza pensare o chiedermi se piacerà o funzionerà, solo per me stesso a esorcizzare il dolore». Sarà per questa verità del far musica che il cd emoziona dall’imprevedibile Terra Nova alla prima lieve e poi inquieta Farfalle; e sarà per la verità dell’artista che Miniature, anche se è una brutta parola, “funziona” davvero. In modo sublime.Come sta suo fratello Vittorio, innanzitutto?«Sta bene, la sua ripresa è stata miracolosa perché l’emorragia era stata importante. L’unica cosa è che spende sempre troppe energie, spende troppo se stesso. Comunque presto lo rivedrete in azione».Un disco, tre dediche… ma forse quattro. Vero?«Il disco ho accettato di farlo come esorcismo laico e per mettere in gioco un’affettività tanto ferita: serviva a me, esprimermi in musica. Per ricentrarmi e curarmi. E scoprire oggi tanta considerazione di pubblico e critica mi colpisce, ma forse certa musica tocca corde necessarie… Però io non riesco a valutare cosa ho scritto, per il momento: nel tempo so che darà nome a quanto ho sentito dentro davanti a queste tragedie, mi farà capire il senso della mancanza di chi è andato via e come si può esprimere. La quarta dedica cui allude è perché anch’io nell’agosto scorso ho avuto un problema all’aorta, un problema grosso. E anch’io sono ancora qui per un pelo. Anche di questo il disco fa esorcismo e cura».Perché dopo tanta ricerca tecnologica e sul piano digitale, ritorna suonando il pianoforte acustico?«Il pianoforte è il mio strumento di elezione: ora su di esso metto a frutto gli anni passati, soprattutto in Giappone, a scavare le timbriche in modo diverso».C’è anche un modo di registrare che è inedito…«Lo chiamo stereofonia evangelica. I microfoni erano sopra la mia testa in modo che chi ascolta possa condividere la prospettiva di chi suona. Di solito abbiamo il piano davanti a noi e sentiamo sulla stessa linea bassi e alti: qui si sentono i bassi a sinistra e gli alti a destra, i rumori meccanici, i pedali, gli errori. È ricerca anche questa».Perché il titolo Miniature?«Per molti rimanderà a cose piccole, minori, contenute, ma io lo penso come qualcosa che ti obbliga ad avvicinarti per vedere: i codici miniati sono un bell’esempio. Qui ci sono forme musicali quasi da notturno, di sei-sette minuti l’una, che nel riascolto “da vicino”, più attento, svelano tanto di più. Non c’è minimalismo, ma rimando all’intimo».Sono brani che aveva nel cassetto o composti apposta?«Avevo da parte solo idee seminali, bozzetti. In studio, con un gran coda, ho codificato quegli spunti e ho suonato improvvisando in presa diretta».Improvvisato? Sembrano mini-suite classico-moderne…«Perché siamo quello che mangiamo. Certe armonie, certe soluzioni le ho talmente interiorizzate che escono fuori strutturate senza accorgermene. L’unica cosa voluta, però, era dare spazio alla melodia  evitando certe asprezze di oggi che pure amo molto».Potrà dunque andare in tour com’è, questo album?«Vedremo se ci sarà un tour: e comunque è sempre un bene che la musica non si ripeta. Io suono spesso in trio jazz all’estero: contano solo intenzione e approccio emotivo, per comunicare davvero con chi hai davanti. E come Glenn Gould credo che una cosa sia registrare un disco, altra suonarlo: arti diverse».Ora che alcuni compagni di viaggio se ne sono andati, pensa ci sarà un nuovo futuro per lei nel Banco?«Non lo so. Siamo fratelli, le ripeto: ma certo, nel caso, vorrei evitare la mera riproposta di una stagione che è già stata, c’è tanto da scrivere ancora. Vorrei fare qualcosa con Vittorio, semmai: ovviamente non per mestiere. Detesto gli artisti con lo sguardo sul fatturato o sull’ego: vede, siamo la patria di Puccini, reagiamo ai meccanismi che fanno scadere la musica in modo avvilente. Ognuno di noi può ridare senso alle cose, agendo nel suo piccolo».L’artista ha dunque un ruolo etico, per lei?«Credo sia inevitabile. Influenzi la gente anche con i gesti, se sei sul palco diventi ex cathedra… Devi, e sottolineo devi, stare attentissimo: come coi bambini. Un dovere decisivo che abbiamo di critico».La tecnologia aiuta o limita l’etica musicale? «È una possibilità. I campionamenti permettono di avvicinare la verità di tanti oggetti sonori, ma sostituire i violini con essi significa togliere l’uomo dai dischi. C’è troppa tecnologia, oggi, che viene finalizzata al commercio o al controllo del pensiero: i laser possono distruggere i calcoli renali ma anche uccidere, per questo l’etica è sempre indispensabile. Ed è nostra, non delle cose».
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