giovedì 5 ottobre 2017
Il premio 2017 allo scrittore inglese di origini giapponesi che spazia dalla storia alla fantascienza indagando la complessità dell’animo umano. Dal romanzo "Quel che resta del giorno" anche un film
A Kazuo Ishiguro il Nobel per la letteratura 2017
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Con sette romanzi e una raccolta di racconti pubblicati in oltre trent’anni (in Italia sono tutti in catalogo da Einaudi), Kazuo Ishiguro non può essere considerato un autore particolarmente prolifico. Ma straordinariamente libero: questo sì. Capace di passare da un genere all’altro sfoggiando una consapevolezza che fa tornare alla mente il meraviglioso trasformismo cinematografico di Stanley Kubrick, ugualmente a suo agio nelle visioni fantascientifiche di 2001: Odissea nello spazio e nella ricostruzione storica di Barry Lyndon. Due territori, questi, che lo stesso Ishiguro – insignito ieri del premio Nobel per la Letteratura – ha a sua volta frequentato, e proprio con i romanzi sui quali maggiormente poggia la sua fama: Quel che resta del giorno del 1989 e Non lasciarmi del 2005. Da entrambi è stato tratto un film, di grande successo nel primo caso (James Ivory alla regia, Anthony Hopkins ed Emma Thompson nei ruoli principali), assai meno riuscito nel secondo, nonostante la prova d’attrice di Keira Knightley. Il fatto che Ish, come viene familiarmente chiamato, sia anche sceneggiatore rafforza in parte l’analogia con Kubrick, anche se l’elemento fondamentale è un altro. Come il regista, anche lo scrittore ha scelto di diventare cittadino britannico senza mai rinnegare del tutto la sua cultura d’origine. C’è sempre qualcosa di americano nel cinema di Kubrick e c’è sempre una traccia del Giappone nelle pagine di Ishiguro. Difficile dire in che cosa si esprima questo retaggio, tant’è vero che, nella motivazione ufficiale del Nobel, gli accademici di Svezia hanno voluto indicare come caratteristica dell’opera di Ishiguro la scoperta dell’«abisso nascosto dietro il nostro illusorio senso di connessione con il mondo». Definizione un po’ criptica, ma che ha il merito di evocare quella dimensione dell’invisibile – o, meglio, di irriducibilità al visibile – che da sempre si riscontra in questo grande narratore.

Nato a Nagasaki, in Giappone, l’8 novembre del 1954, Ishiguro non ha ancora sei anni quando, nel 1960, la sua famiglia si stabilisce in Gran Bretagna. L’inglese è la lingua della sua formazione scolastica e universitaria, e da subito, senza esitazioni, è lo strumento della sua scrittura. Una soluzione pressoché obbligata (Ishiguro ha sempre ammesso di conoscere pochissimo il giapponese), ma che nei primi romanzi risulta ancora sottoposta a una sorta di negoziato. Sia il memorabile esordio di Un pallido orizzonte di colline (1982) sia Un artista del mondo fluttuante( 1986), che gli vale la consacrazione critica, sono storie di ambientazione giapponese, ma di un Giappone ricostruito con le risorse dell’invenzione più che dell’esperienza, attraverso il puntuale rimando ai classici della letteratura anglosassone, primo fra tutti – in questa fase iniziale – il cosmopolita Henry James.

Il pubblico, invece, scopre Ishiguro grazie a Quel che resta del giorno, romanzo in apparenza tutto britannico fin dalla figura del protagonista, il maggiordomo Stevens, la cui riservatezza sottintende però un’inclinazione al sacrificio non lontana dall’etica dei samurai. Non soltanto Stevens rinuncia ai propri sentimenti (il romanzo è inanzitutto centrato sull’incontro, a distanza di molto tempo, con la donna che il maggiordomo avrebbe potuto amare), ma decide di rimanere al suo posto anche negli ambigui anni Trenta, quando il suo datore di lavoro, Lord Darlington, inizia a mostrare una simpatia sempre più accentuata per il regime hitleriano. Quel che resta del giorno è, sotto ogni aspetto, un libro di svolta nella produzione di Ishiguro. Da un lato sancisce l’affrancamento dai fondali giapponesi, dall’altro apre un periodo di sperimentazione più dichiarata, al quale appartengono Gli inconsolabili (1995), in cui incontriamo un virtuoso del pianoforte alle prese con una misteriosa forma di straniamento, e Quando eravamo orfani (2000), dove il virtuosismo si trasferisce nella struttura stessa del racconto, in un continuo gioco di specchi tra Oriente e Occidente e, più ancora, tra illusioni e delusioni della memoria.

Ishiguro sta cercando un nuovo equilibrio e lo trova nel sorprendente Non lasciarmi, ambientato in un futuro molto vicino al nostro presente e visitato da un’inquietudine che, come già accadeva in Quel che resta del giorno, affiora per allusioni e frammenti. Il racconto è affidato, ancora una volta, alla voce di uno dei personaggi, la trentenne Kathy, cresciuta in un istituto che potrebbe essere un orfanotrofio. Fin dall’infanzia, i bambini sono invitati a dare prova delle loro capacità artistiche con disegni e poesie poi sottoposti a un esame così meticoloso da risultare inquietante. A dover essere dimostrato, infatti, non è il talento di ragazzi e ragazze, ma la loro umanità: Kathy e gli altri sono cloni i cui corpi sono destinati a fornire organi di ri- cambio ai rispettivi originali, mediante una progressiva demolizione che si traduce in un lento massacro legalizzato. La situazione potrebbe cambiare, forse, se si riuscisse a dimostrare che i cloni hanno un’anima, ma l’anima è invisibile, più impalpabile perfino della musica. Solo l’arte potrebbe riportarla in superficie.

In Non lasciarmi l’ideale umanistico di Ishiguro si esprime con tutta la sua forza, in una prospettiva di speranza ribadita dalla dichiarazione con cui lo scrittore ha ieri commentato la notizia del Nobel: «Il mondo sta attraversando un momento di estrema incertezza – ha detto –. Il mio auspicio è che tutti i premiati possano costituire una forza in grado di produrre un cambiamento positivo». Sono le premesse che sostengono il più recente e ambizioso dei libri di Ishiguro, Il gigante sepolto, che nel 2015 ha segnato il suo ritorno al romanzo dopo Notturni (2009), una suite di cinque racconti accomunati dall’ispirazione musicale. Riallacciandosi all’epica arturiana, nel Gigante sepolto Ishiguro conduce il lettore in un universo popolato da draghi e cavalieri ed eletto a teatro di un imprevedibile apologo sull’amore, il ricordo e il perdono. «Più passa il tempo – ha dichiarato l’autore in un’intervista ad “Avvenire” –, più mi rendo conto di scrivere principalmente per rappresentare e condividere le mie emozioni. Ma i sentimenti, quando sono autentici, non sono mai semplici. Confinano tra loro, a volte si confondono l’uno con l’altro. È questa complessità a renderci umani, ed è questa umanità che cerco di esprimere nei miei libri».



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