sabato 12 febbraio 2011
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I primi passi del Cortile dei gentili, lo «spazio di dialogo tra credenti e non credenti» promosso dal presidente del Pontificio consiglio della Cultura, cardinal Gianfranco Ravasi, si muovono oggi a Bologna, nell’aula magna dell’Università. Alle 10 col rettore Ivano Dionigi e Ravasi interverranno Vincenzo Balzani, Augusto Barbera, Massimo Cacciari e Sergio Givone; Anna Bonaiuto leggerà passi di Agostino, Pascal e Nietzsche. Qui anticipiamo la riflessione di Givone.---Dice ancora qualcosa la morte di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. L’annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la fra­se a proposito di questo o di quello (secolarizzazione, scristianizzazio­ne, pensiero unico, e così via). Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi. Un po’ come dire: siamo moderni, emancipati, la fede in Dio appartiene al passato. Dovran­no passare secoli – è sempre Nietz­sche a sostenerlo – prima che gli uomini tornino a interrogarsi sul senso profondo e misterioso di questa morte.Che la morte di Dio appaia come un evento che è or­mai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio. Non fosse che per distruggere e negare quest’idea, liquidando al tempo stesso ogni forma di trascendenza: sia la trascendenza della legge morale, sia la trascen­denza del senso ultimo della vita. Tutte cose che costringerebbero l’uomo in uno stato di sudditanza e gli impedirebbero di realizzare la sua piena umanità. L’ateismo in Dio vede il nemico dell’uomo. Per­ciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una bellissima idea. Talmen­te alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un «animale sel­vaggio » come l’uomo. Però desti­nata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza. Rimasto senza Dio, l’uo­mo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi li­miti, diciamo pure in forza del no­stro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo. Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice.Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il ni­chilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo del male. Pre­cisamente lo scandalo che l’atei­smo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consape­vole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancella­to del tutto Dio, persino come i­dea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordi­ne del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie. A differenza del nichilismo, l’ateismo pur ne­gando Dio ne reclama o ne evoca la presenza. E­semplare da questo punto di vista il ragio­namento (che a Voltaire sem­brò invincibile) svolto da Pier­re Bayle. Il ma­le c’è, indiscutibilmente. Come la mettiamo con Dio? O Dio non vuole il male ma non può impedir­lo, e allora è un dio impotente; o Dio può impedire il male ma non vuole, e allora è un dio malvagio; o Dio non può e non vuole, e allora è un dio meschino (oltre che impo­tente); o Dio può e vuole (ma di fatto non lo impedisce), e allora è un dio perverso. Dunque: non può essere Dio un dio impotente oppu­re malvagio oppure meschino op­pure perverso. Obietterà Leibniz: non è vero che Dio lasciando esse­re il male si condanna alla malva­gità e quindi alla non esistenza. Il bene, sul piano ontologico, è infi­nitamente più grande del male: anche se il bene è silenzioso, spes­so invisibile, e invece il male sconquassa il mondo. Il valo­re positivo del bene è infinita­mente più grande del valo­re negativo del male. Non solo, ma il bene è ogni volta una vittoria sul male, mentre non si può dire che il male sia una vittoria sul bene, perché il bene re­sta, anche se c’è il male, e al con­trario il male, pur non cancellato, è vinto dal bene. Perciò Dio, pur po­tendolo, non impedisce il male. Se lo facesse, col male toglierebbe an­che il bene. Quel bene che, rispetto al male, è un di più di essere, di vi­ta, di senso.Lasciamo stare se gli argomenti di Bayle siano convin­centi e se la risposta di Leibniz possa soddisfare pienamente. Cer­to è che tanto l’ateismo di Bayle quanto il teismo di Leibniz concor­dano su un punto: è alla luce dell’i­dea di Dio che il male rivela la sua natura per così dire «innaturale», sconcertante, scandalosamente di­sumana. Tolto Dio, certo si conti­nua a soffrire, e cioè a patire le of­fese che la natura reca agli uomini e gli uomini a loro stessi, ma quan­to più debole sarebbe quel «no, non deve essere» che osiamo dire di fronte al male chiamando in causa Dio… Il nichilismo, a differenza dell’ateismo, non vuole ve­dere il male, non può vederlo. E questo per la semplice ragione che Dio non è più l’antagonista, il ne­mico: semplicemente non è più. Lo stesso si deve dire del male: non è più. Evaporato, dissolto, fattosi impensabile. «L’unico senso che do alla parola peccato – ha detto recentemente un filosofo che fa professione di nichilismo – è quel­lo che è contenuto nell’espressio­ne: che peccato!». Viva la chiarez­za. Il nichilismo è subentrato all’a­teismo. Potremmo dire che il nichilismo altro non è che una forma di ateismo in cui Dio non è più un problema, come non è più un pro­blema il male – Dio è morto, e que­sta sarebbe l’ultima parola, non solo su Dio, ma anche sul male. Questo nichilismo amichevole e pieno di buon senso, oltre che per­fettamente pacificato, continua a essere la cifra del nostro tempo.
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