mercoledì 24 dicembre 2014
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L’atrio della chiesa di Sant’Agnese nella 43ª strada, a New York, si raggiunge salendo tre larghi gradini dietro le tre porte d’ingresso. Là, proprio prima di entrare nella chiesa vera e propria, tutti si fermano un momento al lungo bancone di legno pieno di manifestini, inviti, proposte di preghiera o di pellegrinaggi, copie del bollettino della parrocchia.  Ma quell’anno, in quella buia mattinata di dicembre, la luce sembrava essersene andata quasi prima di nascere. Una fitta nebbia si spostava a banchi, di isolato in isolato, e sfumava le grigie, incombenti sagome dei grattacieli in una vaga, sporca oscurità, come un confine inquieto, un filo spinato, una minaccia ignota ma presente. A breve distanza, tutto sembrava offuscarsi per subito scomparire. Non aveva nevicato, c’erano solo rami stecchiti e fango per terra, e neppure le luci sfarzose e sfavillanti dei negozi, le lampadine palpitanti su ogni alberello lungo le strade o le ghirlandine di stelle foravano davvero l’avanzata del buio. Il mondo sprofondava nel freddo di una natura che appariva, più che assopita, immersa in un letargo mortale.  Ben coperta e variamente imbacuccata, la gente arrivava per la Messa in latino delle undici e mezzo. Il coro era già in posizione, il maestro fremeva con la bacchetta in mano, accennando un motivo a mezza bocca, ma tutti si accalcavano davanti al bancone, e là piano piano cominciavano a sorridere. Da un viso all’altro si comunicava come una fiammella d’allegria, che forava la malinconia opprimente della giornata. Noi stavamo avvicinandoci incuriosite, quando da dentro la chiesa si affacciò con aria battagliera l’usciere, sussurrando scandalizzato: «Forza, signori, la Messa sta per cominciare, entrate, prego», e allora come pecorelle obbedienti varcammo le tre grandi porte, mentre le prime note echeggiavano solennemente.  Alla fine, come si usa in America, uscimmo dalla porta centrale, sfilando davanti al celebrante che salutava tutti uno per uno. Rasserenati dallo splendore della musica e del rito, confortati e riscaldati, il mondo fuori non appariva più così ostile. Attorno al bancone c’era sempre folla, ma finalmente vedemmo l’oggetto di tanta curiosità: era letteralmente ricoperto di statuine per il presepio intagliate in legno d’olivo, di varie dimensioni, lustre e un po’ strane: c’era sì un paio di gruppi con Maria Giuseppe e il Bambino, ma c’erano soprattutto animali di tutti i tipi, reali e fantastici, rifiniti con amorosa passione. La donna dai grandi occhi e dalle mani affaticate che li vendeva disse, convinta: «Tutti gli animali venerano il Signore Gesù. Non ne abbiamo escluso nessuno di quelli che conosciamo. Loro sanno che il Bambino, il Signore del mondo, è arrivato quaggiù nella Notte Santa, e dopo di allora tutto è cambiato ». Poi aggiunse, come riflettendo: «Loro lo sanno meglio di noi». E poi mi mise in mano un grosso leone dal placido aspetto e dalla criniera selvaggia, levigata in molte sfumature di caldo marrone, e disse: «Tu sei un leone, non dimenticarlo, non ti è permesso nasconderti».   Il mio nome in effetti vuol dire leone, in lingua d’oriente: mi sentii molto coinvolta, e il leone si adattava perfettamente alle mie mani. Lo comprai subito, insieme a una quantità di altre bestiole, per arricchire l’essenziale presepio dell’amica che mi ospitava. Pensavo che ne sarebbe venuto fuori un bizzarro corteo che avrebbe rallegrato la severa atmosfera del suo studio carico di  libri, con una processione di bestioline bizzarre strette una all’altra in misteriosa fraternità.  Alla fine uscimmo all’esterno, cariche di pacchi maldestri da cui si affacciavano gru, giraffe e unicorni, e ci avviammo verso casa. La giornata continuava ad essere fredda e scura, ma non ci importava più molto, avevamo tanti animaletti a farci compagnia. A lato dell’imponente facciata di Sant’Agnese c’è un botteghino frequentatissimo, dove si vendono una fetta di pizza e una birra (o, a scelta, una cocacola) per un dollaro e mezzo. Seduto sul marciapiede, un barbone, avviluppato in una coperta a scacchi, mangiava contento la sua pizza. Ma quando ci vide passargli di fronte, rapido si sporse e afferrò per la criniera il leone che sporgeva dal sacchetto, se lo strinse al petto e disse, con malcelato orgoglio: «Questo è il leone di Giudea, il mio leone. È da sempre il simbolo della mia tribù. Voi dove l’avete preso?». Appoggiò con cura per terra, su un cartone, il resto della sua pizza e la sua bibita; poi si alzò in piedi, lasciando scivolare per terra anche la coperta. Era alto e robusto, con una barbetta appuntita e occhi fiammeggianti, e chiaramente voleva risposte, e presto. Noi ci guardammo un poco intimidite, e io dissi: «Anch’io lo voglio, il leone, il mio nome è il suo. Ma ti darò questo, se ne trovo un altro. Vado subito a cercarlo». Lasciai lì la mia amica e corsi indietro verso la chiesa, sperando che la vendita di statuine non fosse ancora finita, ma giusto in quel momento l’usciere chiudeva il portone, non c’era più nessuno. Avrebbe riaperto dopo un’ora, per la Messa delle due del pomeriggio, e non sapeva se la donna dai grandi occhi sarebbe ritornata con altri oggetti; non la conosceva, l’aveva vista quel giorno per la prima volta. Mi voltai contrariata. L’uomo nel frattempo sembrava diventato più grande. Taceva senza guardare la mia amica, e stringeva fieramente al petto il leone. La pizza dimenticata si raggelava. E allora io dissi: «Il leone non può star solo. Deve avere la sua corte, perciò ti darò anche gli altri animali. E deve conoscere il Re dei Re, quindi ti darò la capanna, e la culla dove lui dorme: è appena nato, ma già i pastori, che sanno, gli rendono omaggio».
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