lunedì 1 luglio 2013
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Gli anni Venti-Trenta del passato secolo sono stati tumultuosi e ricchi di nuove mobilitazioni ed iniziative sociali. L’esperienza psichica predominante in quegli anni è stato un tono d’angoscia, che si trasforma in paura o in speranza caratterizzando quell’intera epoca. Studiare quel periodo per capire come e perché si è inceppato il meccanismo di accumulazione oggi, ci aiuta a comprendere la "grande depressione" di questi anni. Cogliendo le profonde diversità tra la crisi degli anni attorno al 1929 e quella dei nostri anni vicini al 2008. Al tempo stesso meccanismi, strutture, ma anche atteggiamenti di sconfitta oggi (sino al suicidio) e di paura ci inducono a ritornare, a ripensare gli anni di furore sociale della presidenza di Franklin Delano Roosevelt. Negli Stati Uniti la partecipazione alla prima guerra mondiale aveva fatto emergere quell’"universalismo" politico, di espansione della democrazia, che è sempre stata una costante dell’ethos liberale di quel Paese. «La democrazia è contagiosa» è il titolo di un importante articolo sulla rivista liberal New Republic nel 1917. E continuava: «È ormai certo che la guerra si trasformerà in rivoluzione democratica in tutto il mondo». Negli Stati Uniti il liberalismo sociale sfidava i tanti populismi ottocenteschi che mobilitavano senza scopo ampie fasce sociali delle nuove immigrazioni. Come sempre le sommosse populiste erano caratterizzate da elementi di natura sociale ambigua. In parte erano proteste giustificate di contadini poveri del West americano e delle industrie alimentari, in parte erano sfoghi emozionali, irrazionali di disagio sociale, che interpretavano il mondo come una continua cospirazione ed un continuo complotto di Wall Street. Roosevelt, nato a New York il 30 gennaio 1882 da una famiglia facoltosa, nel suo giovanile impegno pubblico, colpì straordinariamente l’immaginazione delle classi medie lavoratrici americane, più di qualsiasi altro presidente degli Stati Uniti. Il suo "progressivismo" emerse da un personale ed ambientale senso di disagio che i tradizionali gruppi liberal, egemonici nelle comunità metropolitane della costa atlantica, in quel tempo anche per forte tradizione religiosa metodista, evidenziavano contro i nuovi ricchi della finanza. Si impegnarono nella riorganizzazione popolare del Partito democratico americano. Non si comprende il "rooseveltismo" senza la figura della moglie di Franklin Delano, Eleanor, sua lontana cugina che fu l’anima e la bandiera culturale dei periodi migliori del riformismo sociale e comunitario, impresso dalla politica del "nuovo sviluppo". I riferimenti culturali del New Deal sono i filoni cristiano sociali protestantici e le nuove teorie dell’assistenza sociale che erano sorte nell’ultima parte del secolo diciannovesimo. La base sociale di consenso e mobilitazione furono le classi medie, insegnanti, nuova militanza sindacale, i movimenti delle donne ed i primi grandi aggregati dei movimenti afroamericani. Il New Deal portò alla ribalda i new dealers. Una nuova classe politica. Da Harry Hopkins a Henry Morgenthau, a Felix Frankfurter, a Belle Moskowitz, in letteratura John Dos Passos e John Steinbeck, con l’impegno descrittivo dei drammi dei lavoratori disoccupati e dell’impegno antifascista. Insomma la crisi del vecchio ordine economico liberistico emerse a tutti i livelli della società americana, perdendo quell’egemonia storica nella formazione del senso comune delle classi produttive, sia alla base, sia all’apice della piramide sociale. Roosevelt si candidò, per la prima volta, alle elezioni presidenziali del 1932, in piena crisi economica. Ottenendo una vittoria schiacciante. Le prime settimane della presidenza furono chiamate "i Cento giorni", indicando la velocità ed il decisionismo di quei momenti che caratterizzarono tutto il primo periodo del New Deal. Vi fu l’approvazione del National Industrial Recovery Act (N.R.A.), che elaborò una nuova legislazione sociale e la legalizzazione dei sindacati in fabbrica. Si organizzò una grande agenzia di intervento statale denominata Tennesse Valley Authority, le cui delibere impiegarono molti milioni di disoccupati nella costruzione di grandi infrastrutture statali con ricadute sull’agricoltura, nel comparto energetico e nel comparto scolastico. A monte di queste riforme vi era la nuova idea di "Programmazione Economica". Ma che cos’era questa idea di "Piano"? Negli Stati Uniti, sino ad allora anche, per le vecchie tradizioni liberistiche europee, si pensava ai lavori pubblici ed all’assistenza sanitaria come autogestione privata e solidale delle comunità etniche degli immigrati che formavano la nuova cittadinanza americana. Franklin Delano Roosevelt ed i gruppi dirigenti culturali democratici ribaltarono questa dinamica con la vera e propria "invenzione" di un nuovo soggetto istituzionale: lo Stato che "crea" un’assistenza ed un benessere economico. Fu una vera e propria novità storica che poi si diffuse anche nelle esperienze autoritarie europee. Così si generalizzò l’elettrificazione dell’immenso continente americano, si costruì un’imponente marina mercantile, si risolse la questione delle case popolari. L’economista inglese, in collegamento con Roosevelt, John Maynard Keynes, elaborò anche un nuovo modello di sviluppo in cui i lavori pubblici svolgevano funzioni di stimolo economico, non solo nel momento della depressione, ma anche a boom iniziato. Tutto il primo periodo del New Deal fu caratterizzato da questa "febbre e velocità" sociale nelle riforme. L’impegno riformatore nei nuovi Enti pubblici, allora creati, portò all’impegno delle nuove classi dirigenti fino all’orlo dell’esaurimento. Spesso subirono attacchi ingenerosi, anche brutali, dalle forze conservatrici. Per quasi tutti, però, le "due fasi" del New Deal, leggendo i loro libri, furono i più bei giorni della loro vita. Importanti storici dell’epoca rooseveltiana come Anna Schwartz, Arthur M. Schlesinger Jr., Franco Modigliani, hanno parlato di un primo e di un secondo New Deal. Il secondo, più limitato economicamente, ma decisivo per la formazione del blocco sociale progressivo che sostenne, poi, l’enorme impegno nella Seconda guerra mondiale. La spinta riformatrice, anche allora, provenne dalle élites intellettuali coordinate da Eleanor Roosevelt. Gli stimoli emozionali non produssero sentimenti di paure collettive come nell’Europa delle dittature trionfanti, ma coraggio e desiderio di futuro. Fu la molla della speranza per le masse lavoratrici e dei disoccupati che creò il presupposto per le successive riforme del cosiddetto secondo periodo del New Deal. Così come l’idea di "Nazione", fortemente sostenuta dai rooseveltiani, poteva assumere diversi aspetti. Il "nazionalismo progressivo" era costituito da un atteggiamento antiprotezionista in economia, di mobilitazione collettiva delle classe medie e dei lavoratori, con un forte carattere partecipativo e di controllo democratico contro le vecchie oligarchie delle precedenti amministrazioni presidenziali. La depressione sociale spinse tanti americani poveri ad identificarsi con i personaggi descritti da Steinbeck o da Dos Passos: una sorta di furore e di riscatto nell’accettare la continua mobilità territoriale per trovare lavoro ed una dignità nel lavoro stesso. Roosevelt rivinse le elezioni nel 1936. Con una mossa senza precedenti cercò un terzo mandato nel 1940, a guerra mondiale iniziata. A ottant’anni da quell’eccezionale "esperimento americano" comprendiamo meglio la natura originale di questa nostra crisi iniziata nel 2008. Una dimensione molto più globale ed una presenza di istituti di compensazione internazionale anticiclica molto più efficaci di quelli del periodo rooseveltiano. Gli attuali processi di stagnazione e depressione economica non possono trarre, automaticamente, indicazioni dagli interventi "keynesiani" degli anni del furore rooseveltiano. Si è inceppato nei punti alti, della maturità consumistica, il sistema attuale turbocapitalistico e la crisi non è limitata ai temi della finanza. E comprendiamo anche meglio l’attuale ambiente culturale privo di limiti etici che non esisteva durante gli anni del New Deal americano. Le attuali profonde scorrettezze di certe teorie sull’individuo definito come "essere biopolitico", come "elemento dei social network", "smontabile" in alcune parti del corpo, faustianamente proteso ad un’autonomia assoluta nelle decisioni etiche, ci conducono all’attuale mancanza di futuro che diventa risorsa scarsa e che, al contrario, nei romanzi di John Steinbeck definì quell’accanito impegno collettivo motivato dalla speranza. Come una delle molle istintuali per ricercare, allora, il bene comune tra gli umani.
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