venerdì 20 maggio 2022
Alle Procuratie Vecchie una mostra indaga come l'artista ha lavorato sugli assemblaggi di frammenti trovati di mobili, costruendo totem e armadi disfunzionali per oggetti inutili
Una stanza della mostra di Louise Nevelson

Una stanza della mostra di Louise Nevelson - Venezia, Procuratie Vecchie

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Sta tornando l’ora di Louise Nevelson. Non che l’artista fosse davvero mai uscita dall’orizzonte, ma negli ultimi mesi sono molte le iniziative espositive a lei dedicate, segno evidente di un rinnovato interesse, prima di tutto a livello di mercato. L’artista americana di origine ucraine (la sua storia è simile a quelle di molti suoi colleghi: nasce a Kiev nel 1899 in una famiglia di origine ebraica – il suo vero nome era Leah Berliawsky – che nel 1905 emigra negli Stati Uniti per sfuggire ai pogrom) in particolare è protagonista della retrospettiva “Persistence” a Venezia nei restaurati spazi della Procuratie Vecchie in piazza San Marco (fino all'11 settembre), evento collaterale ufficiale della Biennale che cade a 60 anni di distanza da quando, nel 1962, la Nevelson fu chiamata a rappresentare gli Stati Uniti nel padiglione ai Giardini.

È una mostra molto interessante per diversi aspetti e che spinge, grazie ai sessanta lavori realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, a rileggerne in generale la figura e a valutarne il reale peso nell’arte del Novecento. Caratteristica del lavoro della Nevelson è la pratica dell’assemblaggio di elementi trovati per strada, soprattutto parti di mobili in legno ma anche elementi metallici. Dopo una lunga serie di lavori tra il cubismo e il surrealismo, a partire dagli anni 50, dopo un viaggio in Guatemala e Messico, dà vita al linguaggio per la quale è nota: pannelli, anche di grandi dimensioni, di elementi assemblati completamente dipinti di nero

La scultura è interpretata come arte del rilievo, anche quando l’oggetto è stante nello spazio, con una spiccata tendenza grafica. In un certo senso Louise Nevelson costruisce mobili, armadi disfunzionali per oggetti inutili. Cucine, librerie, casseforti... La propensione classificatoria si riverbera nella struttura analitica. Anche quando è semplice, un’opera della Nevelson è sempre una accumulazione di segni e di memorie, un meccanismo a orologeria di ingranaggi spezzati o incomunicanti. Le strutture arriveranno a configurarsi come totem e torri, come se il panorama di New York fosse percorso da segni ancestrali, una scrittura cuneiforme o misteriosi geroglifici.

Con il tempo la struttura si fa più musicale, quasi un pentagramma. Il riferimento alla musica in lei è esplicito, ma c’è persino la volontà di suggerire una dimensione visiva, con strutture che ricordano buffet d’organo. Se in alcuni casi l’assemblaggio segue precise strutture compositive, altre volte gli assemblaggi procedono come una improvvisazione. Eppure Nevelson non è jazz, il suo ritmo non ha swing.

In mostra sono presenti anche assemblage (alcuni anche di grandi dimensioni) tenuti “al naturale”, che la Nevelson non ha mai voluto esporre. Viene da chiedersi perché, e una risposta possibile è che questi lavori suonano troppo come collage anni Venti e Trenta. Persino gli oggetti e le sagome scelti sembrano rimandare a un immaginario anteguerra. Inoltre Louise Nevelson non sembra essere a proprio agio quando utilizza materiali eterogenei. Il lavoro che incorpora scopa, paletta e coperchio di bidone (1985), per quanto si cerchi di presentarli come denuncia della condizione femminile, è debolissimo. Quello con rottami metallici (sempre 1985) non è molto diverso da un Prampolini.

Se volessimo semplificare in modo persino drastico, ma utile per dare l’idea, Louise Nevelson attraverso un nero completamente opaco (avrebbe poi aggiunto il bianco e poi anche l’oro, ma il senso è lo stesso e il nero resta comunque più efficace) copre con una patina di modernismo East Coast, un minimalismo tutto newyorchese, una sostanza formale che si arresta agli anni Trenta europei. Americano è il salto di scala, con l’ambizione a superare la scultura da piedistallo (parallelo della pittura da cavalletto) per acquisire una dimensione ambientale.

Potrà apparire un po’ fuori moda affermarlo in un’epoca in cui le donne sono portate sugli scudi dell’arte a prescindere, ma applicando un metro laico, ossia scevro da ogni pregiudizio di genere, negativo o positivo che sia, Louise Nevelson appare certamente come una figura di grande interesse, ma in fin dei conti come una eccellente seconda fila della storia dell’arte.

Venezia, Procuratie Vecchie
Louise Nevelson
Persistence
Fino all'11 settembre

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