mercoledì 9 aprile 2014
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Alla genesi della nostra pittura recente, quella che intendiamo come formativa della visione occidentale, il cibo appariva sostanzialmente inadatto alla raffigurazione. Certo la Roma antica amava decorare il triclinium con piatti guarniti e quelli coperti di fichi ad Oplonti sono una testimonianza estremamente efficace del perdurare del gusto sulla nostra penisola. Giotto aveva da affrontare temi ben più drammatici. E per quanto possa apparire oggi strano anche il tema centrale dell’Ultima Cena dovette aspettare tempi lunghi per diventare un soggetto aulico. Era sostanzialmente popolare la rappresentazione del cibo in quella sacra rappresentazione. A Branico, nella bergamasca, già la si dipingeva con affetto vernacolare nel Trecento, e con un tripudio alimentare che doveva far invidia alle popolazioni locali: grandi pani, pesci ed elegante fiasca di vino. Poco prima Pietro Lorenzetti, nella Basilica inferiore di Assisi, ne affresca una dove il cibo posato sul tavolo è invece austero ma dove per la prima volta appare una scena totalmente domestica: fuori dall’edicola gotica nella quale Gesù è seduto con gli apostoli si svolge, veramente nelle retrovie che potrebbero essere le cucine, l’operazione della pulitura dei piatti dai quali i resti vengono con garbo tolti dal piatto e lasciati in affettuoso pasto ad un cagnetto e ad un gatto che sembrano andare perfettamente d’accordo. È quello forse il primo segno d’una umanità reale che viene narrata in modo non dissimile dalla densità umana che Giotto applica alle lacrime nella basilica superiore. Il Rinascimento successivo delle arti darà poca importanza al cibo, ne dà già troppa alla letteratura e alle suggestioni neoplatoniche; il cibo rimane quindi una questione popolare, nelle aspirazioni e nelle esecuzioni. Ci vuole la visione neoaristotelica di Leonardo per concepire un’Ultima Cena dove la tradizione popolare e la cultura domenicana consentiranno la disposizione dell’infilata di michette di pane in prima linea nella composizione, come a marcare la prima zona della prospettiva. E difatti la più pop delle mutazioni culturali del Cinquecento, quella conseguente alla Controriforma, avrà sulla naturalezza dei comportamenti un effetto inatteso. Anche il popolo ha i suoi diritti, non solo gli aristocratici e gli intellettuali. E il popolo ha naturalmente fame. Quindi ecco che appaiono le pitture che affrontano il tema del cibo come benedizione del lavoro e della grazia. Sono del tutto inattese le grandi pitture dei Campi, quella grande cena prospettica del 1577 nella chiesa di San Sigismondo che Antonio Campi (Cena in casa del fariseo, quelli dagli occhi bianchi che non vedono), riprende dalle prospettive di Paolo Veronese, il quale in un cosmo di architetture aveva iniziato ad esaltare la natura morta. Infatti è il tema di Simone che consente un soggetto religioso più libero: Moretto a Brescia (si sa che i bresciani col cibo non scherzano) dipinge un bellissimo pollo arrosto fra Gesù e Simone. Già era nata la prima esaltazione enogastronomica nelle Nozze di Cana di Paolo Veronese dove per la prima volta appare un assaggiatore che guarda nella luce il colore ambrato del vino, ed è nientemeno che il padrone di casa dal naso rosso. Una nuova strada si apre alla pittura e Vincenzo Campi, fratello minore dell’altro, va verso l’esaltazione di ogni tipo di alimento, dalla natura morta con carni a quella coi pesci e a quella con la frutta o la verdura. La strada dell’abbondanza è tracciata, il suo Mangiatore di ricotta appare addirittura come un auspicio. Il cibo diventa così un tema stabile, per chi è realista come lo sono sempre gli spagnoli, diventerà soggetto di precisione inarrestabile come quella di Velázquez dove le uova al tegamino sembrano profumare di aglio e olio, e per chi è intimamente più barocco, come lo sono per loro natura i napoletani, si fa percorso fra sensualità e intellettualismo al punto da farsi, la natura morta, prima sperimentazione degli equilibri d’una possibile pittura astratta, la medesima che Fede Galizia aveva con rigore esportato in Spagna contaminando forse la genialità dei grandi locali, Juan Sánchez Cotan e seguaci. Ah! Dimenticavo il più inatteso di tutti, quello che col cibo pone il primo mattone del surrealismo, il milanese prestato alla casa d’Austria, il sommo Arcimboldo. Ma questa è un’altra storia ancora… guardare il cibo diventa da allora motivo di sicurezza e di vanto. Ben lo capiranno gli olandesi puritani, i quali, severi nella forma, non lo saranno affatto nella descrizione della tavola.
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