martedì 4 agosto 2009
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Due fiamme bianche per capelli, vol­to e sguardo affilati, due mani gran­di e nervose. L’immagine di Jean Guillou corrisponde alla sua musica visio­naria e al suo virtuosismo d’interprete. Guil­lou, nato nel 1930 e dal 1963 titolare della tribuna di St. Eustache a Parigi, è l’ultimo dei grandi compositori organisti francesi del Novecento, un gruppo che può vantare no­mi come Messiaen, Alain e Langlais. E uno dei maggiori interpreti del «re degli stru­menti ». Guillou compositore e strumenti­sta sarà protagonista stasera a Loreto, nel santuario della Santa Casa, di un concerto con in programma brani suoi, di Händel e di Liszt. Maestro, quando è stato il suo primo im­patto con l’organo? Ad Angers, la mia città natale. Avevo 11 an­ni. Salii alla tribuna dell’organo da solo ed ebbi la sensazione di trovarmi davanti a u­na sorta di mostro. Vedevo solo le tastiere, la fila delle canne di facciata. Ma il suono che ne usciva dalla pancia era un mistero, aveva qualcosa di magico. Lei a Parigi ha avuto come maestri Dupré e Messiaen. Che ricordi ne ha? Il ricordo più forte è quello di Dupré, con cui studiai organo. Da lui ho appreso l’impor- tanza di una tecnica saldissima, premessa necessaria per l’interpretazione, che è in­vece personale. Ai miei allievi non ho mai spiegato come suonare un passaggio ma ho sempre insegnato a pensare la partitura e al modo migliore per far arrivare al pubbli­co la bellezza della musica. Con Messiaen ho studiato analisi. È stato il mio vero mae­stro di composizione, da lui ho imparato a entrare nei segreti dei capolavori. Nelle sue opere l’organo si accompagna spesso ad altri strumenti. Per quale moti­vo? Ho cercato di individuare strade future per lo strumento. Storicamente è stato solista o accompagnatore. Nella mia musica ho cer­cato di farlo dialogare: nei Concerti con l’or­chestra, in inedita dimensione cameristica con il pianoforte, il violino, il clarinetto, la tromba... persino con la marimba e il flau­to di pan. Come sarà l’organo del futuro? L’avvenire dell’organo non è nella monu­mentalità ma in un ritorno all’essenziale. E deve tornare in mezzo alla gente, come nel­l’antica Grecia. Ho progettato uno stru­mento a un tempo ricco e mobile. Si tratta dell’«Organo a Struttura Variabile», a cui sto lavorando da 25 anni. Uno strumento da concerto a quattro tastiere composto da molti corpi dislocati nello spazio facilmen­te trasportabili. Un’idea all’avanguardia, per la quale in Europa sembra impossibile tro­vare finanziamenti. Molte però delle nuo­ve soluzioni le ho riversate negli organi che ho progettato come quello che ho realizza­to con Mascioni nel 2008 a Roma per la chie­sa dei Portoghesi e quello dell’Auditorium di Tenerife, che può essere suonato in con­temporanea da nove organisti. L’organo è destinato quindi a uscire dalle chiese? Anche se oggi la Chiesa non è più interes­sata alla musica come un tempo, l’organo resisterà. È vero però che nelle sale da con­certo l’organo ha una nuova vita. In Giap­pone tutti gli auditorium delle città più im­portanti hanno un organo. In Cina è pre­sente nelle sale di Shangai e Pechino. E di recente ho avuto allievi cinesi, tra cui una ragazza, forse forse la prima organista ci­nese al mondo.
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