giovedì 1 dicembre 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Alla fine “noi” siamo davvero gli “altri”. Basta con la condiscendenza verso i primitivi, basta con il paternalismo di chi pensa che, se si impegnassero, gli aborigeni di qualsiasi latitudine potrebbero raggiungere l’unico livello di civilizzazione universalmente riconosciuto come tale, e cioè quello che obbedisce agli standard dell’Occidente illuminista. Un conto era quando gli altri se ne stavano nei loro villaggi, in atolli sperduti o in avamposti inaccessibili. Adesso invece abitano le nostre città, esercitando su di noi lo stesso sguardo sorpreso e indagatore che fino a poche generazioni fa l’Occidente riservava al resto del pianeta. Noi il centro, loro periferia. Tutto mescolato, adesso. Senza che gli altri ci diano almeno la soddisfazione di lasciarsi corrompere dai nostri vizi. La globalizzazione viaggia a modo suo e i simboli tribali convivono con la logica del consumismo. Non è un “altro” mondo: è il mondo così com’è. Il nostro e, nel contempo, il loro.Una provocazione? La lanterna dell’antropologo di Marshall Sahlins (a cura di Cristiano Casalini, Medusa, pagine 64, euro 9,00) è anche questo, non c’è dubbio. Nello stesso tempo, è un’eccellente introduzione al pensiero di quello che viene ormai considerato il maggior antropologo vivente: statunitense, classe 1930, Sahlins ha studiato in particolare le culture della Polinesia, pubblicando numerosi saggi, alcuni dei quali già noti al lettore italiano (Capitan Cook, per esempio, edito da Donzelli nel 1997, e Un grosso sbaglio, uscito da Eleuthera lo scorso anno). Quanto alla Lanterna dell’antropologo, si tratta di una conferenza pronunciata nel 1997 a Nanterre, quindi in Francia, patria dell’Illuminismo. Il posto ideale per “rovesciare la torta” dei pregiudizi occidentali. Partendo, letteralmente, dalla metafora cara al maestro di Sahlins, Leslie White, per il quale la base di ogni società era marxianamente costituita dalle tecnologie e dai mezzi di produzione, su cui in un secondo momento si stendeva la “glassa” delle forme simboliche e culturali. Niente affatto, ribatte l’intemperante allievo, che pure di economia se ne intende: i simboli vengono prima, le tecnologie contano fino a un certo punto. Altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno dei cosiddetti develop man, i melanesiani che, una volta inurbati, continuano a praticare le antiche usanze tribali, magari adoperando mazzi di banconote al posto delle conchiglie votive.«La riflessione di Sahlins ha come obiettivo il superamento di un equivoco fortemente radicato – sottolinea l’antropologo Franco La Cecla –, quello per cui le culture tradizionali sarebbero fatalmente destinate a soccombere quando vengono a contatto con l’Occidente. È un pregiudizio che in realtà ne sottintende un altro, vale a dire che le culture degli “altri” siano immutabili nelle loro strutture e immobili nel tempo. Prive di storia, insomma. Oggi sappiamo che questa distinzione, cara a un autore come Claude Lévi-Strauss, non ha più senso. Le culture che fino a poco tempo fa immaginavamo rigide e fisse si dimostrano, al contrario, capaci di adattarsi in modo originale ai processi della globalizzazione. Da un certo punto di vista, questo rappresenta la fine del mito della “purezza” degli indigeni, che fa da contraltare alla presunta malvagità del nostro modello di civilizzazione. Il quale, tra l’altro, non per questo rinuncia a proporsi come egemonico. Chi parla di “culture subalterne” lo fa nella convinzione di non essere subalterno. Di essere centro, non periferia». E il denaro? «Il riconoscimento dell’elemento simbolico insito nella moneta è ben presente, oltre che in Sahlins, negli studi di Maurice Bloch. In generale, poi, l’attenzione per i significati profondi dei processi economici è determinate in ambito neomarxista, dove si tende a dare per scontato che gli elementi culturali vengano prima di quelli strutturali o, se si preferisce, sovrastrutturali». Ma una rivoluzione come quella suggerita da Sahlins non si traduce in una sorta di relativismo? «Non direi – afferma la Cecla –. Anche da un punto di vista religioso, mi pare interessante l’intuizione per cui alcune popolazioni indigene possono ormai considerare il cristianesimo appreso dai missionari come una componente essenziale della loro identità».Meno severo verso l’eredità dell’antropologia classica si dimostra lo storico Franco Cardini: «È una disciplina che discende da buone intenzioni e da cattiva coscienza insieme – sintetizza –. In questo c’è tutto il paradosso dell’Occidente, che prende coscienza della propria marginalità con Erodoto, per il quale è evidente che il centro sta altrove, nell’Impero persiano, rispetto al quale i greci sono sudditi periferici. Si tratta di un atteggiamento unico nella storia della cultura, perché di solito ogni civiltà rivendica un primato, un’unicità che la rende centrale e irriducibile a confronto delle altre. Lo stesso cristianesimo, a ben vedere, si fonda su una promessa altrettanto insolita: già per Agostino la legittimità dell’Impero romano è considerata la condizione che rende possibile la nascita di Gesù, eppure Gesù non è romano. Appartiene a un popolo che in quel momento è assoggettato all’autorità centrale, un popolo che, tra l’altro, fonda da sempre la propria identità sul principio di elezione e quindi di centralità». Da dove viene, allora, la cattiva coscienza? «Dal fatto che queste premesse sono clamorosamente contraddette dalla prassi dell’Occidente – risponde Cardini –, che con la forza bruta dell’azione ha cercato di imporre il proprio modello al resto del mondo. Cercando, nei momenti più drammatici, un correttivo nel principio di tolleranza, che emerge nel Seicento, con Locke, in ambito religioso e diventa universale nel secolo seguente». E adesso a che punto siamo? «Al punto indicato da san Paolo nella Lettera ai Galati – rilancia Cardini –. Per effetto della globalizzazione ci rendiamo conto che davvero non esiste più “giudeo né greco" e che l’alterità è, da un certo punto di vista, l’unico tratto che accomuna gli esseri umani. Siamo tutti gli altri di qualcuno, ma questo non si traduce in una resa al relativismo. Se mi permette il gioco di parole, solo il riconoscimento della relatività delle culture rende possibile la relazione fra di esse. Del resto, è quello che sosteneva Cusano nel De pace fidei. E pensare che a quell’epoca, a metà Quattrocento, Colombo non aveva ancora scoperto l’America...»
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: