lunedì 15 dicembre 2014
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«Do you remember Marco Negri?... Oh yes, the “italian bomber!”». In una sera nebbiosa di dicembre, entrando in un pub di Glasgow è facile imbattersi in una simile discussione tra i tifosi dei mitici Rangers. Lassù, nella non perfida Albione scozzese, non l’hanno mai dimenticato il “bomber silenzioso”. Arrivato, nell’estate del 1997, in punta di piedi dal Perugia di Luciano Gaucci (per la bella cifra di 3,75 milioni di sterline) divenne subito l’idolo indiscusso del popolo di Ibrox. Lo fece a suon di gol; 23 nelle prime dieci giornate e nel momento clou di quell’eroica stagione chiuse con 32 reti in 29 gare disputate. In mezzo 3 marcature in quattro partite da «debuttante» in Champions e un record eguagliato: «quello di Paul Sturrock, 5 gol rifilati al Dundee United». Imprese degne di un Braveheart della Scottish Premiership. All’apice del successo, con Paul Gascoigne al suo fianco, «in campo e fuori», venerato, quanto Del Piero, persino dalla band degli Oasis («Ero diventato una rockstar riconosciuta anche a Londra. E alla vigilia del Mondiale del ’98 stavo per essere convocato in Nazionale dal ct Cesare Maldini», ricorda) ad un tratto l’ascesa del campione italiano subisce uno stop improvviso. «Come in “Matchpoint” di Woody Allen, se la pallina da tennis rimbalza sul nastro e torna dalla tua parte la partita è persa, per sempre...». Il motivo di quella brusca interruzione è stato per anni avvolto nel mistero. Braccato in tribuna, imbolsito e barba lunga alla Jim Morrison, fu costretto ad assistere impotente al trionfo degli “odiati” cugini del Celtic. Il “George Best all’italiana”, era finito in fuorigioco per colpa di un banale incidente all’occhio. «Ma quale rissa con il mister Walter Smith... Durante una sfida di squash la pallina mi colpì alla retina, e da lì scese il buio». Dopo 16 anni, l’ex “moody italian” (l’italiano lunatico) ha svelato l’arcano in un’autobiografia, Marco Negri. Più di un numero sulla maglia (Luglio Editore). Una storia che pare la versione corretta e aggiornata di un cult anni ’70, quel “Calci, sputi e colpi di testa” di un altro bomber silente (allergico a stampa e autografi), Paolo Sollier. Sul perché ha deciso di mettersi a nudo in un libro, Negri risponde citando il filosofo americano Ralph Waldo Emerson: «La vita non esaminata non è degna di essere vissuta». Riflessioni di un 44enne che, dopo Glasgow ha chiuso la sua carriera di bomber nomade nel 2005, al Perugia, ed ora è appena tornato in campo a Bologna, «la città in cui vivo», in un match di Calcio a 7, campionato provinciale del Csi. «Ho infilato una tripletta e la mia squadra ha vinto 7-4. Sono tornato per divertirmi con gli amici e perché devo allenarmi per un grande ritorno a Ibrox il 25 gennaio». Una sfida tra vecchie glorie su quel prato che lo ha reso eterno nella storia dei Rangers. «Sarà un match importante quanto quel gol che segnai al mio primo derby con il Celtic. Giochiamo per un ex Rangers, il 38enne olandese Fernando Ricksen, malato di Sla». La stessa malattia che nel calcio italiano ha causato oltre cinquanta vittime. «Non so se il calcio abbia a che vedere con la Sla. Il doping? Mai usato, ma ho visto calciatori agli inizi in serie C e ritrovati poi in grandi club di A fisicamente trasformati... Se hanno preso farmaci o sostanze nocive purtroppo gli effetti si conosceranno tra vent’anni». È l’unico buco nero di uno sport che continua ad amare e ad insegnare. «Con Fabio Cannavaro, Costacurta e Ambrosini, organizziamo dei Campus estivi. Insegno a bambini che hanno l’età di mio figlio Christian. Quando ho smesso è stata la mia salvezza. Fare il papà a tempo pieno mi ha permesso di “ricalibrarmi” e di capire quali sono i valori prioritari nella vita di un uomo». La prima lezione di mister Negri, che auspica l’inserimento negli staff tecnici della «figura inedita dell’allenatore degli attaccanti», è quella di «non considerare il calcio come un lavoro. Io non l’ho mai fatto, né agli inizi quando mi svegliavo all’alba per studiare, poi mattino al Liceo e pomeriggio agli allenamenti, né quando ero un professionista affermato». Dall’Italcantieri di Monfalcone alle giovanili dell’Udinese, lancio al Bologna e la «laurea da bomber» nel Cosenza di Zaccheroni. La consacrazione nel Perugia di Galeone, «l’allenatore che mi ha trasmesso di più senza volere insegnare». In quel Perugia c’erano due ragazzi, Rino Gattuso e Marco Materazzi, «due amici veri, prima che dei campioni a cui dovrebbero ispirarsi le ultime generazioni di calciatori che sono privi di quella loro “ferocia” mondiale». Nel suo libro una dedica speciale la riserva al più «grande campione con cui ho giocato, Paul Gascoigne: un uomo esagerato, ma intelligente, generoso, geniale. La dimostrazione in campo che a volte la Natura seleziona degli individui speciali per ruoli speciali all’interno di un branco». Marco Negri è uscito subito dal branco, convinto che «il talento va allenato. Se da noi nascono meno campioni è perché i bambini non sanno più correre, faticano a fare una capriola». Lezione finale di un bomber «felice per aver realizzato tutti i sogni in campo» e che non è mai caduto nella rete del rimpianto memore di quel proverbio indiano che dice: «Puoi svegliarti anche prima dell’alba, ma il tuo destino si è comunque svegliato mezz’ora prima di te».
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