sabato 27 agosto 2011
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La corriera non arrivava in paese, ma nel piazzale di fronte alle ultime case e la sponda del torrente, di rena e sassi. Nel borgo si transitava a piedi o con una bestia da soma; le strade erano strette e tortuose. D’estate, il sole faceva scottare i muri degli orti, che emanavano profumo di salvia e rosmarino; d’inverno, tra piogge e neve, il vento portava quello delle carbonaie. Appena la corriera era ripartita, giungeva qualche voce: la gente che tornava. Questi ricordi, sospesi tra infanzia e gioventù, a Pilade erano sopraggiunti quando, venuto via dalla capanna in cima al monte, aveva intravisto una sagoma di cane dileguarsi verso il bosco; il suo, un meticcio toccatore, s’era dato alla fuga. Strano, molto strano: mai aveva temuto il suo congenere. La moglie era ad attenderlo sulla soglia di casa, preoccupata d’aver veduto Femio e non lui. Ma non dettero peso alla cosa. Parlarono del figlio Alindo, che i titolari della cartiera in cui lavorava, avevano mandato a Siviglia per tenere un corso di istruzione agli operai sui macchinari di produzione. Il ragazzo, quasi ogni sera telefonava alla madre. Discorrevano, ma lui continuava a pensare alla sagoma e all’insolito odore di selvatico che aveva lasciato nell’aria e che doveva aver fatto fuggire Femio, grosso e nero, preso cucciolo, e ottimo per guardia e lavoro. All’epoca in cui lo acquistò aveva una ventina di capi, tra pecore e capre. Adesso solo sei capre, che metteva al pascolo attorno la capanna. Un passatempo da pensionato. Quarant’anni di cartiera, tra il frastuono delle macchine, e le facce dei colleghi che invecchiavano insieme alla sua. A casa, col cane e gli animali stava bene, benché Milia gli dicesse di riposarsi. Non ne era capace. Si coricò presto. Era giugno e doveva cominciare il taglio dell’erba. Ma il tempo non glielo consentiva. Le estati della sua gioventù se n’erano andate, come non avessero più terra e cielo; quel cielo di bagliore dall’alba al tramonto, che dava voglia di futuro e di vita. Nel paese c’era ancora gente, e ogni porta raccontava una storia. Adesso, molte, erano chiuse; le ragnatele ai vetri delle finestre. D’inverno, la solitudine era totale. Se invece andava a valle, nella periferia delle borgate, non trovava che insediamenti industriali, il fumo dei quali si innalzava nel cielo, offuscandolo. La cartiera dove aveva lavorato, e dove, adesso, lavorava il figlio come perito industriale, si trovava nelle vicinanze di un affluente del fiume. L’acqua, le rive dell’affluente con gli alberi, non erano granché cambiati. In paese, gli abitanti rimasti erano ormai quasi tutti vecchi. Pochi i giovani, che vi venivano soltanto a dormire. Alla sera e nei giorni festivi andavano nelle periferie con le macchine, parcheggiate ai bordi del piazzale, dove non veniva più nemmeno la corriera. Di sera, tornato dal promontorio della capanna, qualche volta si spingeva fino alla chiesa. Morto il vecchio parroco, non ne erano più venuti. Gli mancava. Gli aveva fatto comunione e cresima, l’aveva sposato e battezzato il figlio. Lo rivedeva recitare il breviario nell’orto, e fumare il sigaro Toscano seduto sulla porta di canonica, mentre le donne pulivano la chiesa. Un amico Don Fernando, che lo aveva tante volte consigliato, aiutato. Con queste memorie si alzò, fece colazione e uscì. Milia gli disse che l’avrebbe raggiunto prima di mezzogiorno, per il pranzo. Il sentiero era in parte di terra, in parte di sassi. Una mulattiera non ancora sommersa dai rovi. Femio lo seguiva, orecchie tese e coda alta. D’un tratto gli passò avanti, e prese a camminare col naso a terra, le zampe posteriori quasi sollevate. Ai piedi di un castagno, si fermò, mugolando. Tra i cespugli, giacevano i resti di un capriolo, scheletro e brandelli di interiora. I cani randagi, pensò. Era già accaduto, che randagi e bracconieri uccidessero bestie selvatiche. I primi le mangiavano, i secondi, spesso, le lasciavano. Perfino a una cerva avevano sparato. Si divertivano con le armi, gli piaceva uccidere. Arrivato alla capanna, aprì alle capre. Il cielo era cosparso di nubi scure. Ma di tanto in tanto, dalle cime degli Appennini, scivolava un raggio di sole, che dava al paesaggio il colore dell’oro. Una nebbia leggera, un velario avvolgeva gli alberi della boscaglia. Femio continuava a fiutare in quella maniera che non gli conosceva. Le capre l’avevano guardato, gli occhi di cristallo segnati da un tassello nero. Poi erano andate al margine dei prati, a brucare germogli. Pascolavano muovendo lo spazzolino della coda, in segno di soddisfazione. Femio le sorvegliava, seduto. Lui provò a mettere in moto il decespugliatore. Non partiva. Andò a cercare la candela nuova, nel ripostiglio dei ferri. Fu allora che udì come un colpo di vento, e sentì suonare i campanelli delle capre. Uscito, vide una bestia grigia travolgere una capra; l’aveva caricata come fanno tori e montoni, negli attacchi a un uomo o un avversario. Afferrato un bastone, andò verso la bestia. Non era un cane, ma un lupo. Lo riconobbe dal muso, puntuto, gli occhi obliqui e gialli che, un attimo, lo guadarono. A balzi, si allontanò. Tremante, la capra si rimise in piedi, la schiena lacerata. Le altre erano sparite. Sentì i campanelli nella stalla. Chiamò Femio. Gli rispose la moglie: era con lei. L’aveva incontrato mentre veniva su. Le raccontò l’accaduto. Milia gli rispose che, giorni prima, dalla parrucchiera, un’amica le aveva detto che su, a monte, c’era stata una strage di pecore, e la notte avevano ululato i lupi. Ma solo adesso le era tornato in mente. Nel pomeriggio, Pilade andò a fare una perlustrazione nella boscaglia. Pioviscolava e Femio lo seguiva, bagnato, la pelliccia attaccata alla pelle. Spesso, gli accostava il muso alle gambe, per una carezza. Spaventato, sembrava, come le capre, che s’erano messe in un angolo della stalla. Tra i castagni, si mosse qualcosa. Femio ringhiò, e una voce disse: «Calma, calma. Sono qui per farmi un cinghiale». Era un giovane alto, magro, i capelli lunghi e l’orecchino; col braccio tatuato, impugnava un fucile lucido come un giocattolo. Un bracconiere intravisto altre volte. «Per i cinghiali devi andare su, qui li hanno fatti fuori durante la stagione», gli rispose Pilade. Sorriso crudele e spavaldo, il giovane replicò: «Ce ne sono ancora. Ho trovato le tracce». Alla pioggia, si aggiunsero fulmini e tuoni. Pilade rientrò a casa. La mattina seguente, brillava il sole. Bagnata, l’erba pareva argento. Dalla porta della capanna, Femio abbaiò verso qualcosa steso a terra, in mezzo ai prati. Pilade accorse: un lupo, con un fianco sanguinante, lo guardava. Avrebbe potuto finirlo. Ma qualcosa che andava oltre di lui lo dissuadeva. E altro non vide che gli occhi gialli e obliqui del lupo, che gli dicevano quanto non capiva, ma che avrebbe voluto capire. Dal corpo malandato, gli parve anche vecchio. Un solitario cacciato dal branco. Doveva soccorrerlo.
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