domenica 29 marzo 2020
A causa della pandemia per la prima volta nella storia non si è concluso il torneo dei college statunitensi: l'università gesuita Gonzaga tra le protagoniste mancate
La finale del Ncaa, il campionato universitario americano del 2019, al Palazzetto di Salt Lake City

La finale del Ncaa, il campionato universitario americano del 2019, al Palazzetto di Salt Lake City - Reuters

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La chiamano “pazzia di marzo”, “March Madness”, ma quest’anno di folle c’è solo un terribile virus. La pandemia che sta paralizzando le nostre vite e tutto il mondo dello sport ha “buttato nel cestino” anche la Ncaa, il torneo di basket dei college statunitensi. Per la prima volta addio “big dance”, il grande ballo finale di una competizione che in questo mese scatenava proprio tutti negli States, non solo gli appassionati di pallacanestro. Non ci sarà da ammirare nessuna “Cinderella” (Cenerentola), ossia la squadra rivelazione: l’incantesimo è stato spezzato sul più bello. Uno stop inevitabile ma mai successo nella storia di questo campionato nato nel lontano 1939. Nemmeno la guerra riuscì a fermare quel che è da sempre un rito di massa. E il vuoto in America si sente a tal punto che da settimane spopolano sul web le previsioni su come sarebbe finita se il torneo si fosse concluso. Il canale televisivo Espn si è divertito a raccogliere ipotesi e algoritmi incoronando Wisconsin come campione Ncaa 2020. Ma quella di pronosticare la composizione finale del tabellone ( bracket) è diventata una passione così contagiosa che con Obama è arrivata persino alla Casa Bianca.

Parliamo del resto di un torneo i cui tifosi sono più viscerali anche della blasonata Nba. C’è un forte senso di appartenenza, molto più capillare su un territorio sconfinato come quello Usa. La Nba, con le sue 30 squadre, è presente in solo 28 città (New York e Los Angeles ne contano due). Alla Ncaa prendono parte più di 300 college che diventeranno 68 nella fase finale (dal 1982 chiamata “March Madness”). La franchigia Nba può essere spostata altrove per ragioni di business, quella universitaria appartiene all’ateneo. Vuoi mettere l’attaccamento per l’università che hai frequentato o per quella della città in cui vivi? Certo non c’è paragone: la Nba è di un altro pianeta, ma la Ncaa esprime ancora altri valori, un gioco più basato sul collettivo, e custodisce poi il peso della tradizione. Non a caso la prima “palla a due” di questo sport è stata alzata proprio in un ateneo, lo Springfield College in Massachusetts dal vulcanico professor James Naismith. Non vanno però nemmeno dimenticati alcuni scandali recenti, dovuti proprio al giro d’affari crescente intorno alla Ncaa: nelle tre settimane finali vengono incassati quasi un miliardo di dollari, di cui 800 milioni solo dai diritti Tv. Un seguito popolare che ha portato anche la Final Four in stadi del football da oltre 80mila persone. Decisiva è anche la suspense di un torneo a eliminazione diretta, dove le sorprese sono dietro l’angolo e gli eroi di oggi non necessariamente saranno i talenti Nba di domani, ma magari solo bravi ingegneri, medici o avvocati. Ogni edizione non è mai banale, ma certo quella del 1966 ha lasciato il segno. Fu l’anno della cavalcata trionfale dei Texas Western Miners, grazie a un coach impavido, Don Haskins che nonostante la segregazione razziale in voga arruolò in squadra 7 cestisti afroamericani attirandosi le critiche di tutta l’America. Eppure i Miners persero una sola partita e in finale Haskins sbalordì ancora schierando in campo solo giocatori di colore. Contro i “tutti bianchi” dei Kentucky Wildcats, Texas Western centrò a sorpresa la prima e unica vittoria del torneo. Un trionfo dai risvolti extrasportivi raccontato in maniera avvincente anche in un film Glory road – Vincere cambia tutto.

Scorrendo però la storia della Ncaa non ci vuole un algoritmo per ipotizzare che anche quest’anno almeno un ateneo cattolico avrebbe detto la sua. Non sono pochi quelli che per esempio scommettevano sui Bulldogs della Gonzaga University, l’università gesuita intitolata al santo italiano del XVI secolo, Luigi Gonzaga. Dopo 22 apparizioni consecutive alla March Madness poteva davvero essere l’anno buono per il loro primo titolo. Ma sono ancora vivi i trionfi dei Wildcats di Villanova, il college agostiniano della Pennsylvania, vincitore di due Ncaa tra il 2016 e il 2018 dopo il titolo del 1985. Nell’albo d’oro però hanno scritto il loro nome anche le squadre di altre università cattoliche: Holy Cross Crusaders (1947), La Salle Explorers (1954), San Francisco Dons (1955 e 1956, tra le cui fila brillò Bill Russell, una leggenda della palla a spicchi), Loyola Ramblers (1963), Marquette Golden Eagles (1977) e Georgetown Hoyas (1984, team trascinato dal grande Patrick Ewing). Successi che testimoniano il decisivo contributo cattolico al basket americano. Merito di ordini missionari che hanno visto nella pallacanestro uno straordinario strumento di evangelizzazione e integrazione. E come dimenticare alla Final Four di due anni fa il ciclone mediatico di Sister Jean, la suora centenaria assistente spirituale in campo e fuori dei Ramblers della Loyola, l’ateneo gesuita di Chicago.

Un capitolo a parte della Ncaa è quello poi a tinte sempre più azzurre. Il 2019 ha portato alla ribalta Davide Moretti sconfitto con Texas Tech University dai Virginia Cavaliers dell’altro italiano Francesco Badocchi. Ma la Ncaa 2020 poteva consacrare la grande speranza della pallacanestro italiana: Niccolò “Nico” Mannion. Nato a Siena nel 2001 è figlio d’arte di papà “Pace”, 200 partite in NBA e 13 anni in Italia (con una Coppa Korac vinta a Cantù). Madre italianissima, Gaia Bianchi, ex pallavolista, Nico è cresciuto a Phoenix avendo come idolo indiscusso Kobe Bryant. A 8 anni l’ha conosciuto dal vivo e giura che non dimenticherà mai quei dieci minuti di conversazione in italiano con l’indimenticabile fuoriclasse dei Lakers. Nico si è già guadagnato il soprannome di “Red Mamba”, per via dei suoi capelli rosso irish, ma soprattutto perché sta bruciando le tappe anche con l’Italia: esordio da 42 punti contro la Russia agli Europei Under 16 e debutto a 17 anni con la Nazionale maggiore. Quest’anno prima che il Covid–19 stoppasse la Ncaa stava viaggiando a 14 punti di media con i suoi Arizona Wildcats. Ma a soli 19 anni, questo talentuoso funambolo di 191 centimetri intravede già il sogno Nba e noi un grande futuro in azzurro. Sarà importante non farsi schiacciare dalle aspettative e non fare troppi calcoli, memore della lezione di Kobe: «Non importa quanto segni. Quello che conta è uscire dal campo felice».

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