venerdì 12 settembre 2014
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Storie di altro calcio, football di retroguardia. Pezzi di “pallone” in cerca di riconoscimento internazionale. Storie di chi ce l’ha fatta e di chi ancora ci spera. Pure, di chi non può farcela, per forza di cose. Eppure si ritaglia uno spazio, magari lontano dalle direttrici del calcio ufficiale. Storie differenti, l’una dall’altra. Paesi, popoli, minoranze, regioni, in cerca di indipendenza, tra battaglie più o meno plausibili. Di tutto, di più. E il calcio, un mezzo. Per sentirsi uniti, un corpo unico, almeno (o anche) su un campo di pallone. Tra loro e l’imprimatur ufficiale, leggi e regole. Che non valgono sempre, quanto meno non universalmente. È il caso di Gibilterra, l’ultima arrivata nella famiglia europea. L’Europa sì, il mondo no, almeno per ora. L’Uefa s’è arresa, dopo una lunga battaglia, anche a colpi di carte bollate e tribunali sportivi. La Fifa resiste, arroccata sulle sue posizioni. Gibilterra si accontenta, ci mancherebbe. Una storia lunga ben più di un secolo (la federazione è del 1895, la Nazionale del 1905, il primo campionato del 1907), finalmente riconosciuta a livello continentale. E pazienza se la prima partita targata Uefa (dopo 4 amichevoli) domenica scorsa s’è risolta con un cappotto (0-7), a opera della Polonia. Se l’importante è partecipare, per Gibilterra lo è ancora di più. Perché ci sono regine e cenerentole. E non puoi che essere cenerentola se rappresenti un Paese di 30mila abitanti, hai uno stadio (il Victoria) privo dei requisiti minimi per certe competizioni, per mettere insieme una squadra devi pescare nel mare del più puro dilettantismo (eccezion fatta per Liam Walker, che un contratto da professionista se l’è meritato, a Bnei Yehuda, in Israele), tra poliziotti (compresi due dei tre fratelli Casciaro: un record, tre fratelli in nazionale), elettricisti e pompieri. Resta la passione, incrollabile. Del resto, se guardi in faccia la Spagna e hai profonde radici britanniche, il calcio non puoi che averlo nel sangue. Ma a certi livelli, tocca accontentarsi. E a Gibilterra hanno imparato presto, se l’arco di tempo tra il 1949 e il 1955 è stato definito, un po’ pomposamente, “golden era”, solo perché squadre come Real Madrid, Atletico Madrid e Admira Wacker erano discese tra le colonne d’Ercole per affrontare in amichevole una nazionale ancora lontana dal riconoscimento internazionale. Quello sarebbe arrivato decenni dopo, il vero trionfo. Come battere la Spagna, nel più squilibrato dei derby. Perché era la Spagna il grande oppositore. Timore di ripercussioni, alla base della guerra politico-calcistica. Gibilterra avrebbe potuto fare da apripista, altri avrebbero potuto entrare dalla stessa porta. Baschi e Catalani, nel timore della Spagna. Altre storie, che affondano radici in antiche e mai sopite spinte indipendentiste. E altra storia, sotto il profilo calcistico. Gli basta saccheggiare rispettivamente l’autarchico Athletic Bilbao e il prolifico vivaio (autentica fucina di talenti, spesso promossi in prima squadra) del Barcellona per incastonare un gruppo coi fiocchi. Dicembre, il periodo della visibilità. Tempo di stop, per i campionati. E tempo di sfide amichevole, per le rappresentative basca e catalana. A riempire stadi e rinnovare il sacro fuoco dell’orgoglio. Ma resta lo status quo, la Spagna unita. Una sola nazionale, senza speranze per altri. Poi, c’è chi si nutre di storiche istanze d’indipendenza e chi prova a scimmiottare senza poggiare su solide basi legate alla storia. Perché da noi pure la Padania s’è fatta la sua “nazionale”: una regione che non c’è e vive nei sogni di politici (e loro seguaci) animati da secessionismo da operetta. Hanno messo in piedi una squadra, che s’è ritagliata il suo spazio nel cosiddetto Non-Fifa Football, il calcio indipendente dalla Fifa. Una miriade di amichevoli e tornei (perfino un Mondiale, la Coppa Viva), giocati qua e là sul pianeta, tra squadre che rappresentano più o meno piccole comunità, Stati non riconosciuti, regioni in cerca di autonomia, etnie, minoranze, micronazioni. Storie d’orgoglio, talvolta. E pure di divisioni. L’orgoglio del popolo curdo e di una regione che abbraccia brandelli di Turchia, Iraq, Iran e Siria. Hanno una federazione (sede a Erbil) e una nazionale, il Kurdistan, campione in carica al Mondiale degli altri (la Coppa Viva). Altra storia quella di Cipro e delle sue divisioni, tra isola greca e turca. La parte turca ha la sua nazionale, non riconosciuta. Ma quel che la politica divide, spesso è lo sport a unire: più significativi i passi verso l’unificazione delle federazioni (e nazionali) calcistiche che non quelli delle due parti dell’isola.Altre storie, di sofferenze e orgoglio. Storie a lieto fine, (almeno) su un campo di calcio. La storia del Kosovo, finalmente indipendente. Nel calcio, ce ne si accorse a margine di una sfida Svizzera-Albania. Tra le due squadre, ben 11 giocatori di origini kosovare, tra cui da Xherdan Shaqiri, Valon Behrami e Granit Xhaka, atleti di talento. Firmarono una petizione, che ha avuto un seguito vincente, ancorché parziale: la nazionale kosovara ora può disputare amichevoli. Un primo passo, in attesa del riconoscimento di Uefa e Fifa. Quello della Fifa lo ottenne la Palestina, solo nel 1998 però, benché la federazione fosse nata nel 1962. Storia traumatica, lo specchio di una terra martoriata: perdite (di vite umane, anche tra i calciatori) e distruzioni (stadi spesso rasi al suolo), impedimenti (visti spesso negati dalle autorità israeliane, per i nazionali) e problemi (ritiri quasi sempre in Giordania). Eppure, una lenta e costante crescita. Fino al recente successo nella Afc Challenge Cup, con tanto di passaporto timbrato per la Asian Cup (e questo orizzonte geografico marca l’ennesima distinzione con Israele che da sempre gioca i tornei europei, in tutti gli sport). Una duplice prima volta, su un campo da calcio. Terreno di speranza, orgoglio, riscatto.
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