sabato 5 luglio 2025
Maurizio Ferraris riflette sulla differenza tra macchina e vivente riconoscendo che la prima non conosce quel volere da cui, a suo avviso, nasce la coscienza
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L’ultimo lavoro di Maurizio Ferraris, La pelle. Che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale (Il Mulino, pagine 304, euro 18,00) illustra bene una delle posture tipiche della filosofia di fronte alle sfide del presente. Per dimostrare che lo Stato moderno era la conclusione dello spirito oggettivo europeo, Hegel iniziò dall’«Essere, puro essere, senz’alcun altra determinazione»; per svelare l’arcano dell’intelligenza artificiale, Ferraris s’avventura in complesse analisi de «l’uomo e del suo posto del mondo», si sarebbe detto un tempo. Il percorso del filosofo torinese è meno sistematico, ma la postura è simile: per pensare il presente occorre fornirgli un contesto più ampio, convocando i suoi progenitori. Nel caso dell’IA e della vexata quaestio della sua eventuale differenza dall’intelligenza cosiddetta «naturale», tutto dipende da una verità in fondo assai ovvia: l’uomo è un corpo, un organismo vivente, come tale mosso dalla volontà di vivere, mentre la macchina è priva dell’uno e dell’altra. Ciò accomuna l’uomo a ogni altro vivente, giacché ogni organismo nasce e muore, e nel frattempo soffre, spasima e anela. Se non che il bipede implume esercita la sua volontà avvalendosi di una serie vieppiù complessa di strumenti tecnici: dal bastone all’intelligenza artificiale generativa, passando per la scrittura. Memore, forse, delle sue passate frequentazioni derridiane, Ferraris parla volentieri di «supplemento»; ma più che un’appendice, la tecnica istituisce un circolo. «La natura, vale a dire il bisogno, la mancanza, e dunque la volontà, si incontra, attraverso la mediazione della tecnica, dell’automa, con la seconda natura (lo spirito), e questa retroagisce sull’originario trasformando l’anima naturale in ragione e coscienza».

La frase è densa; conviene diluirla. La natura è indigente ma risoluta, determinata a sopravvivere. L’ausilio delle tecniche, forse casuale nelle sue prime fasi, ha conferito all’uomo una seconda natura: il mondo dello spirito, ovvero (hegelianamente) le istituzioni, i saperi, i rituali, senza i quali quest’animale cronicamente indigente non sopravviverebbe. Possiamo rinunciare alla caldaia e forse addirittura alla connessione wi-fi, ma non potremmo vivere senz’«addestramento», ossia senza quella lunga e faticosa coazione al controllo dei nostri impulsi. Dall’interazione tra la prima e la seconda natura, vale a dire «tra l’animale umano e il mondo dello spirito», nascono la coscienza e la ragione, ossia il senso che diamo al nostro agire, gli scopi che ci prefiggiamo di raggiungere.

Del resto, si tratta d’un teleologismo episodico: per lo più gli uomini agiscono in modo meccanico, automatizzato, non diversamente dalle macchine che hanno creato. Con Nietzsche, Ferraris è convinto che siamo debitori della nostra sopravvivenza a un «fare senza sapere»: ad esempio, andare in bicicletta senza conoscere le leggi della fisica o cucinare una pastasciutta senza saper nulla di chimica. Il burattino (il meccanismo) è nella nostra anima, ma questo non significa che Pinocchio potrà mai diventare un bambino, se non nell’immaginazione di Collodi. L’uomo ha creato le macchine perché in lui vi è una componente meccanica, irriflessa. Senza carta e penna, i calcoli umani avrebbero un’estensione assai più modesta; l’IA non fa che allargarne a dismisura i confini. Ma Pinocchio non sarà mai un bambino, perché a un burattino manca la volontà, la coscienza della sua finitezza. «In conclusione, l’intelligenza, ben lungi dall’essere alcunché di esclusivo e inimitabile nell’uomo, è ciò che è […] identico all’automa: registra, manipola, calcola e ripete».

«La differenza tra artificiale e naturale non va cercata nel pensiero, bensì nella volontà che lo orienta e nel mondo dello spirito che lo circonda». Volontà, ossia dolore, bisogno, anelito. L’uomo «sarebbe privo di senso in assenza della volontà e del suo frutto più maturo, la ragione come facoltà dei fini». Letteralmente e metaforicamente, la «pelle» evocata dal titolo del libro (con maggiori evidenze scientifiche rispetto alla ghiandola pineale di Cartesio) rappresenta il legame tra le due nature: tra l’animale e lo spirito. La pelle avvolge il corpo e al tempo stesso lo affaccia al mondo esterno, registrandone le sollecitazioni. «Che il più profondo, anzitutto nel senso del “più fondamentale”, sia la pelle […] è in effetti la pura e semplice verità: possiamo immaginare organismi senza occhi, senza nasi, senza orecchie, ma non riusciamo a immaginare un organismo senza pelle, cioè anche senza tatto». Lo insegnò già Aristotele e l’avrebbe ripetuto Jacques Derrida, ma per Ferraris è qui l’origine della differenza tra l’uomo e l’intelligenza artificiale, la quale non potrà mai arrossire per pudore o sudare per un’intensa emozione.

Possiamo concederlo volentieri, se non che il libro contiene anche un sottotitolo: «Che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale», di cui è più difficile dar conto. Già è dubbio che esista una tal «epoca», se è vero che l’IA inizia per lo meno con la scrittura alfabetica. Gli stessi spettri di post-umanità e post-verità che inquietano le nostre notti (o che nutrono i sogni di facili guadagni) non sono nulla di nuovo. Rifedendosi al Fedro platonico, Ferraris nota: «L’ora della scrittura […] diviene l’ora della postverità, del dilettante, dell’autodidatta e dell’auto terapeuta». Nihil sub sole novum, direbbe l’Ecclesiaste: l’uomo ha sempre convissuto con l’intelligenza artificiale. Ma Ferraris ha uno scrupolo finale (Derrida avrebbe forse parlato di «denegazione»): «Questo non significa minimamente che non vi sia nulla di nuovo sotto il sole, perché la potenza di registrazione e di calcolo acquisita dagli automi del XXI secolo» non ha precedenti. Eppure per tutto il libro ripete che l’uomo, dal bastone in poi, ha sempre vissuto d’intelligenza artificiale. Si può concedere che l’attuale intelligenza artificiale generativa sia la macchina più potente finora inventata; ciò non toglie che il significato del «pensare» e dell’essere umano, per come Ferraris lo espone, non è mutato. Oggi come ieri l’uomo è «impasto di pelle e di tecnica, di anima e di automa».

Ciò conferisce al libro un curioso sapore. Con notevoli argomenti vuole convincerci che la tecnica, ogni tecnica, non è la malattia ma semmai la salvezza dell’uomo, che semplicemente non esisterebbe in sua assenza. È una buona notizia, se non altro perché l’opposto non sarebbe possibile. D’altra parte il libro è percorso dal lamento schopenhaueriano (di nuovo denegato: «Credetemi, non è un pessimismo da due soldi!») per una condizione umana segnata da una volontà votata unicamente alla propria sopravvivenza. Che essa, poi, dia luogo a uno speculatore finanziario o un missionario religioso non cambia nulla. Si tratta sempre dell’eterno movimento della volontà dei viventi, che fatica a nascondere che in fondo «tutto è vanità». Ma non era questo il senso del detto del Qoèlet, la cui saggezza scettica voleva piuttosto richiamare l’uomo al suo Creatore. «Bandisci dal tuo cuore la tristezza, e allontana dalla tua carne la sofferenza; poiché la giovinezza e l’aurora sono vanità. Ma ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i cattivi giorni» (Ec. 12, 2-3).

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