giovedì 21 agosto 2014
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Il convitato di pietra è lì, fra le righe del discorso di Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi e di questa mostra – Puro, semplice e naturale nell’arte a Firenze tra ’500 e ’600 (fino al 2 novembre) – che nel grande museo si dipana. Fra le righe non tanto, anzi, il convitato, per restare fedele alla propria immagine, sgomita e pretende di uscire in piena luce, finché, appunto, dalla penna dello storico cade il suo nome richiamato per una delle opere sue maggiori, il Martirio di san Matteo della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Si è capito che, ancora una volta, è lui, Caravaggio, che si erge a paragone, o forse come punto di approdo che conferma della tesi generale. Natali ha dato, negli ultimi vent’anni, una impronta nuova allo studio dell’arte fiorentina e toscana, a cominciare dalla mostra del 1996 sull’Officina della Maniera, che raccoglieva gli sviluppi di uno svecchiamento nel modo di intendere quello che si è soliti definire “Manierismo”. Per “rivedere” quasi sempre bisogna tornare indietro, a chi è l’origine del discorso. A Vasari, appunto, che intendeva con Maniera lo stile grande (dopo Leonardo, Raffaello e Michelangelo), che tiene alto l’orizzonte dispiegato già dal primo pontefice della pittura italiana, Giotto. La critica del nostro tempo, invece, ha visto nel Manierismo lo stile della crisi rispetto, ovviamente, all’ideale di grandezza rinascimentale, insaccato dai perfidi lanzichenecchi nel 1527, mettendo a ferro e fuoco Roma, e da altre concause che non è qui il caso di ripercorrere. La ribellione che alcuni pittori mettono in atto, vedi Rosso Fiorentino e Pontormo, in realtà appare a uno sguardo meno condizionato dal clima ideologico novecentesco più inerente alla loro personalissima indole espressiva, e la mostra dedicata ai due pittori nei mesi scorsi a Palazzo Strozzi, a cura dello stesso Natali e di Carlo Falciani, tendeva a “disgiungere” col bisturi del confronto stilistico i dioscuri dell’arte fiorentina del XVI secolo. La congiunzione astrale indotta dall’infaticabile “officina” che in Natali trova uno dei suoi principali artefici ha consentito, per un mese, di allungare il passo da Palazzo Strozzi fino agli Uffizi per trovare nella mostra sul “naturalismo” il sostanzioso pendant a quella dei due gemelli siamesi. Ed è un bel reagente critico, poiché fa capire quanto fosse intricata la matassa dell’arte fiorentina del Cinquecento se, anche qui, come già per quella di Rosso e Pontormo, il mallevadore primo e incontestato fu sempre lui, Andrea del Sarto. La situazione era quella di una convivenza, più o meno vivace e conflittuale, di poetiche: quella vicina alla Scuola di san Marco, per esempio, non inseguiva prove di bravura, ma, con ideale antivasariano, «le cose oneste, facili, dolci e graziose». Nella tessitura molto rigorosa della mostra, si può andar per scampoli e notare certi dettagli e lo stile di singole opere: può essere la meticolosa botanica del prato su cui s’incontrano Maria ed Elisabetta nella Visitazione di Mariotto Albertinelli; ovvero la rustica verità del San Rocco di Andrea Sansovino, massiccio e un po’ trasandato, col particolare della vistosa pustola che si nota sulla coscia sinistra. In fatto di rustica provenienza, ecco il Cristo ortolano del Franciabigio, che, zappa in spalla, intima alla Maddalena di non toccarlo nel Noli me tangere. Oppure brani di natura morta nel Cristo a casa di Marta e Maria  dell’Allori, nelle Cene di Emmaus di Jacopo da Empoli e Filippo Tarchiani, negli emblemi iperrealisti che ornano l’accademia della Crusca. Ma poi esiste anche un “Seicento contromano”, ovvero contrario sia al naturalismo caravaggesco che all’epica barocca: ecco il passo indietro di Jacopo da Empoli (Madonna del soccorso) e Filippo Tarchiani (Pietà), e la scultura del Cristo risortodi Antonio Novelli, ben lontano dalla virile sensualità del Cristo della Minerva di Michelangelo. Lo strepitoso fanciullo di Lorenzo Lippi, vera sintesi di puro e semplice, a cominciare dalla pulizia grafica, va di contrappunto alla vera sprezzatura con cui Andrea del Sarto coglie l’istante di vita della figura maschile seduta intenta a leggere appoggiando il braccio destro su un sacco. La commovente tenerezza dello Stendardo di San Jacopo, ancora di Andrea, col gesto del Santo che accarezza il mento del putto e la straordinaria Santa Fina in marmo dipinto di Pietro Torrigiani, che alla fine XV secolo sembra anticipare l’iperrealismo di certi ritratti in cera sei-settecenteschi. La mostra degli Uffizi prende il titolo ancora da un tic vasariano. Criticando quella che per lui era una insicurezza caratteriale, povera di quell’ardore e quell’orgoglio che rendono grande il genio, Vasari tuttavia riconosce ad Andrea del Sarto «somma perfezione» nel dipingere figure «semplici e pure, bene intese, senza errori ». Il che suona ancora un po’ ambiguo, perché l’essere senza errori, in fondo, potrebbe costituire una duplice condanna: talmente sopra i canoni umani da non sbagliare mai, può valere tanto quanto un eccesso di diligente semplicità (che Vasari nota puntualmente negli affreschi di Poggio a Caiano: «molto studio e fatica » nel restar fedele alla natura). Poi Vasari si fa uscire a denti stretti quello che, senza girarci intorno, doveva dire subito: «se bene disegnò semplicemente, sono nondimeno i colori suoi rari e veramente divini». Ma Natali, giustamente, ricorda che per Vasari le doti del grande pittore «sono tutte riferibili al naturale che Andrea avrebbe trasmesso, prima, ai suoi emuli diretti e poi ai pittori che nel secondo Cinquecento (e oltre) si sarebbero attenuti alle raccomandazioni di verisimiglianza sollecitate dall’ideologia sortita dal Concilio di Trento». Resta però da notare che il ponte a una sola campata che dal naturalismo fiorentino aggetta fino a Caravaggio, Natali l’aveva già armato nel 2010 con la mostra dedicata a Bronzino, sviluppando un’intuizione di Roberto Longhi. A questo punto, perché non dire che sarebbe opportuna e di grandissimo interesse una mostra che indaghi gli inizi di Caravaggio dopo l’arrivo a Roma mettendo in luce che cosa il Merisi vide e meditò durante i viaggi fiorentini al seguito di Francesco Maria Bourbon, alias cardinal Dal Monte. La testa di serie di questa indagine, tanto necessaria quanto irta di difficoltà a causa degli scarsi riscontri oggettivi di quei viaggi caravaggeschi, diventerebbe proprio Andrea del Sarto, al quale, dopo tante circumnavigazioni, Natali dovrebbe dedicare una delle sue prossime fatiche espositive (di quelle editoriali ha già dato prova in alcuni saggi), affiancandogli, appunto, una rassegna incentrata sulle peregrinazioni del Merisi in terra fiorentina.
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