domenica 9 ottobre 2022
MacDonald invita a osservare a mente sgombra gli animali, i paesaggi, la vegetazione, il clima e i suoi fenomeni; Romagnoli fa del ghiacciaio non solo uno scenario, ma anche un personaggio chiave
Particolare di un’opera di Elwira Sztetner esposta nella mostra “Miszmasz” a Faenza

Particolare di un’opera di Elwira Sztetner esposta nella mostra “Miszmasz” a Faenza - Museo Diocesano di Faenza

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Sempre più di frequente ascoltiamo grida d’allarme sul fronte dell’ecologia, dell’emergenza climatica, della necessità di un nuovo approccio responsabile e in modo imperativo più lungimirante e previdente nella concezione, nella relazione e nell’esperienza della natura. Ci interessiamo al tema con attenzione crescente, eppure il monito che la natura lascia rimbombare nei riguardi dei nostri comportamenti non pare risuonare sufficientemente concreto, tangibile. Non è semplice avvertirne appieno la realtà e l’urgenza, troppo vasta è la portata della questione; e se la presenza stessa della natura ci ingombra la mente ben più di quanto ci accorgiamo, proprio in quell’ingombro sta il nodo di un problema in corso, un problema che sta cambiando, fortemente cambiando di proporzioni, e che nel suo cambiare rifugge da classificazioni frettolose, o da disamine che oltre a una lucida messa in evidenza dei danni provocati dagli umani (incuria, o sistematico danneggiamento di fauna e flora) poco altro riescono a delineare, dire, raccontare. Laddove accanto alla messe dei dati di realtà, è la narrazione della natura che più è in grado di insegnare, additare, mostrare le gigantesche proporzioni del tema. Con poesia e insieme con rigore di ricercatrice scientifica intesse uno splendido racconto Helen MacDonald ( Voli vespertini e altri saggi su ciò che la natura ci insegna, Einaudi, pagine 298, euro 20,00): lo fa soffermandosi su dettagli, scorci di paesaggi, fenomeni climatici, animali. Il suo è un mosaico prismatico, dove flora e fauna si compenetrano e appunto, raccontano. Una lezione di sguardo, articolata in modo che ogni dato solleva domande, si fa pensiero. Così gli animali fanno la loro apparizione dando luogo a piccole e grandi epifanie. Una lotta feroce tra delle lepri addensa su di sé l’ombra cupa di un presagio, «la fugace percezione del fatto che, anche dopo la scomparsa dei modelli reali, i significati attribuiti alla fauna e alle stagioni possono persistere tanto tenacemente da impedirci di cogliere mutamenti vertiginosi in cose da sempre considerate eterne». E proprio questo interrogarsi e meditare, spostando la contemplazione lungo le chine più impervie della preoccupazione e dell’allarme circa il futuro dell’ambiente naturale rende l’occhio su esso posato attento, nitido nel rinvenire avvisaglie, promesse, disincantamenti. «Esistono sempre contronarrazioni, voci nascoste, vite perdute, modi diversi di essere», scrive MacDonald, e ogni particolare della natura sta lì a ricordarcelo. Atre forme di racconto (la stessa narrazione storica) risentono di un mancato dialogo e confronto con il circostante, con l’ambiente, con quella miriade di piccoli dettagli che di continuo creando e distruggendo, sin nella più esigua specie mutano il mondo e lo riconfigurano. «Cose piccole. Cigni, fiumi, barche, correnti, cordoncini di cotone ritorto »: lo sguardo di Helen Mac-Donald sa essere infinitesimale o immenso, come che sia sempre attento e fedele a una «quotidianità numinosa», a un’osservazione insieme fervida e precisissima di tutto quanto è lì, attorno, quella natura che deturpata o abbandonata, sempre è là, e ci parla. Nessuno guarda gli animali per come sono, per quanto nel corso dei secoli si è intarsiata attorno alle loro figure una rete di classificazioni, e tassonomie, e interpretazioni che li rende simbolici loro malgrado. Analoga distorsione può dirsi per la natura, che tante volte (compresa la fase di lockdown conosciuta dal mondo intero durante il momento peggiore della pandemia) cerca di dirci quanto possa esistere senza di noi, senza il nostro catalogante sguardo che distorce e manomette, che scardina e distrugge. Una lezione di sguardo ci è offerta da Voli vespertini. Un invito (ammantato di grazia e bellezza) a osservare con massima attenzione e mente sgombra gli animali, i paesaggi, la vegetazione, il clima e i suoi fenomeni: lasciando che lo stesso sguardo sia libero di fluttuare in una condizione di sorpresa, e di attesa. «L’attesa della speranza, incagliata in quella strana luce che ci immobilizza il cuore prima delle tempeste della storia». La natura del resto, anche nella triste traiettoria delle sue metamorfosi causate dall’intervento umano, sa imporsi anche sul piano più precipuamente narrativo un personaggio a sé, una figura che funge da sfondo e altresì è protagonista. Nell’originale romanzo di Gabriele Romagnoli ( Sogno bianco, Rizzoli, pagine 206, euro 18,00) è un ghiacciaio lo scenario dove diacronicamente fatti e visioni hanno luogo, e che tuttavia a lettura ultimata resta come indiscusso personaggio chiave. Il ghiacciaio M, ispirato a quello della Marmolada, imponente e misterioso accoglie una griglia di storie inanellate che spaziano da quelle di guerra, storie dei tanti soldati che durante il primo conflitto nei combattimenti sul ghiaccio persero la vita, a vicende romanzesche, a mezza strada tra realtà e invenzione, storie di vita che proprio nella presenza del ghiacciaio, nell’abisso supremo del suo paesaggio naturale, trovano continuità (nella diacronia) e spiegazione di un intreccio narrativo ambizioso e complesso. Quel ghiacciaio che tante vite ha spezzato, è lo stesso che asciugandosi e retrocedendo sino alla minaccia di scomparire tante altre potrà interrompere e far finire. Un pensiero che domina la narrazione di Romagnoli, uno scenario naturale su cui ogni moto d’animo della vicenda narrativa frastagliata nel tempo e nel decorso va a scontrarsi. La natura domina e orienta racconti, descrizioni, saggi poetici, romanzi. Sempre più dovrà farlo e lo farà; tutto sommato, tra molte catastrofi, un’indicazione di metodo e una buona notizia.

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