giovedì 5 novembre 2015
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«Sciascia interpreta la religiosità popolare siciliana, seppur dal di dentro – essendo lui stesso siciliano e vivendo in Sicilia – mantenendosene mentalmente distaccato, lontano: applica, infatti, al fenomeno siciliano delle chiavi di lettura culturalmente aliene rispetto ad esso». Il teologo don Massimo Naro lo denuncia subito: è una lettura etico- politica, più che propriamente religioso- spirituale. E portava Sciascia a concludere che «un popolo che non fa rivoluzioni religiose difficilmente farà mai una vera rivoluzione civile». È un livello che non va comunque trascurato, per don Naro: «Interrogarsi sulla tenuta etica e sulle implicazioni socio-politiche della religiosità popolare, in una terra come la Sicilia, da questo punto di vista “disastrata”, è molto importante».Anche se rischia di «rimanere parziale e di indurre a un fraintendimento della religiosità popolare, quasi fosse una tara storica del progresso civile e civico». Una lettura esclusivamente “sociologica” del fenomeno-religiosità, «rischia di condurre, a lungo andare, a una considerazione della religiosità stessa entro i confini della “ragion sociale pura”, se mi è permesso di parafrasare così Kant», continua. Cosa comporta questo? Che persino ai nostri giorni, «si può assistere al paradosso di un disinteresse de facto dei responsabili della vita ecclesiale e della prassi pastorale verso le varie espressioni della religiosità popolare che si perpetuano senza alcun adattamento e aggiornamento, diventando mero folklore strumentalizzabile in varie direzioni (dalle pro-loco per fini economici, alle famiglie mafiose di quartiere per fini di visibilità sociale), a fronte di un interessamento de jure da parte della magistratura e degli organi di polizia: si pensi al divieto di fare gli “inchini” durante le processioni, o al divieto di feste, anche quelle “battesimali” ed “esequiali”, come accaduto a Catania e a Roma coi Casamonica». Per questo «il contributo di Sciascia fu e rimane importantissimo, se non altro per le provocazioni che alla teologia e alla pastorale riuscì a dare tra le sue righe». Riflessione teologica e organizzazione pastorale devono quindi «tornare a occuparsi della religiosità popolare interpretandola non solo come fatto sociale ormai “anacronistico”, bensì come fatto interno alla vita della comunità credente, in cui la religiosità è più precisamente “pietà” popolare, volano di quello che il concilio, in Lg 12, chiamava sensus fidei». E citando papa Francesco e l’Evangelii gaudium – viverla come “esperienza mistica comunitaria” e come “riserva di valori” da custodire e incrementare per un “umanesimo cristiano”.
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