mercoledì 14 novembre 2012
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​Vngo da una città che suona a orecchio. Napoli è ammuìna. Non è voce solo dialettale, esiste in italiano «ammoinare», fare moine. Napoli è ammuìna di voci e di conversazioni che si svolgono contemporaneamente e il cittadino sa partecipare di tutte quelle intorno. Mi meraviglio quando in televisione due si danno sulla voce e gli altri non riescono a capire. A Napoli tutti si danno sulla voce e ognuno può seguire una dozzina di conversazioni. Questione di esercizio: fanno così pure i buoni scacchisti giocando più partite alla volta e senza bisogno di scacchiera.In un posto affollato l’orecchio è l’organo maestro. La vista, poveretta, è circondata e può solo sbirciare un poco innanzi. Meglio sa fare il naso, che può sapere quello che succede alle spalle. Superiore è l’orecchio, che riceve anche attraverso i muri. Perciò Napoli è stata gremita di teatri, quanto la Varsavia ebraica che parlava yiddish. Tra numerosi in poco spazio si sviluppa il teatro, per necessità di mimica e di scambio. L’ammuìna è sollecitata dalla densità.Sulle navi borboniche era perfino un ordine dato ai marinai: "Facite ammuìna". Allora quelli che stavano a prua correvano a poppa e da poppa correvano a prua, mentre quelli che erano in basso alle vele salivano e quelli in alto scendevano. "Facite ammuìna" serviva a dare da lontano l’impressione di febbrili manovre. Il teatro napoletano è scuola d’ammuìna.A Napoli la mimica è inflessibile, non si può sbagliare l’angolo del polso, il raggruppamento delle dita, il ritmo sincopato della mossa che deve significare: "Tu che bbuo’?", tu che vuoi? Il forestiero si tradisce subito, prima che apra bocca, non la sa eseguire. "Tu che bbuo’?" è un’esecuzione e lascia minimo scampo di risposta.Cresciuto col teatro sul lastrico di marciapiedi e soglie, mi sono trovato iscritto all’anagrafe del posto più da spettatore che da cittadino. Perfino nei litigi sanguinosi mi facevo distrarre dall’esibizione rituale. Dovevo concentrarmi per reagire. Perciò ne ho prese più di quelle date. Lo spettatore a Napoli paga sempre un prezzo.Eduardo De Filippo: nessun napoletano nato nel 1900 può prescindere da lui. Dei suoi innumerevoli personaggi conservo la commozione sorridente per un paio: zi’ Nicola di Le voci di dentro, che si esilia dalla famiglia in un soppalco e da lì comunica attraverso un alfabeto Morse fatto di petardi, decifrati solo dal nipote. Zi’ Nicola, eremita in mezzo all’ammuìna, incarna la santità laica e sdegnata, la più valorosa virtù napoletana.L’altro mio preferito è Michele Murri di Ditegli sempre di sì, che rientra nella vita civile dopo una permanenza in manicomio. Per sua necessità deve prendere tutto alla lettera, aggrappandosi da naufrago alle parole per non farsi sommergere dall’uso assurdo che ne fanno i sani. Combina equivoci, guai, infine promuove una riconciliazione tra due fratelli, prima di rientrare nel camerone degli allontanati. Ho riso come tutti fino all’indolenzimento degli addominali con le situazioni di Eduardo, ma di più resto affezionato a questo paio di ammaccati tenaci.De Filippo è stato autore, e molto di più sconfinato attore. Per me sta sul gradino di Chaplin, senza poter aggiungere un terzo a loro due. Napoli è stata e resta in cartellone per le scene del mondo grazie a lui. Come ogni sconfinato non ha lasciato scuola, successori. Chi osa ricalcarlo non raggiunge il rango di pappagallo, creatura capace di buona imitazione. A che ne stanno i miei conti con Eduardo? In attivo per me, che resto suo incantato spettatore. Non ho presso di lui alcun termine di comparazione e accostamento: ammiro e basta.I fantasmi di La doppia vita dei numeri non sono parenti dei famosissimi "questi" di Eduardo. I suoi erano avanzo di superstizione, il mondo già li aveva licenziati. Quelli della mia notte di capodanno sono invece pronti a farsi convocare, a giocare una partita a tombola, seduti alla tavola dei vivi. I fantasmi rispondono a chi ha bisogno di loro, come i santi. Le donne conoscono la formula.Non è segreta, è una loro saggezza ben piantata in cuore, sede più sicura del cervello. "Il cuore è un indovino", dice un proverbio russo. E uno in yiddish conferma: "Il cuore è un mezzo profeta". Mi convince qualche frase collaudata da esperienza di popoli e generazioni, anziché la sentenza di qualche maestro di ragionamenti.Dei filosofi ho letto volentieri quelli prima di Socrate, scrutatori del mondo e delle sue energie. La storia del pensiero non la intendo come evoluzione, Hegel non è più adulto di Talete. Lo stesso vale per l’Illuminismo: servì a scrollare colonne e sgarrettare il palazzo dei Filistei, ma insieme a Sansone ci è finito sotto. I fantasmi non possono essere abrogati. I Lumi non li hanno cancellati, piuttosto li hanno custoditi nell’ombra. In queste pagine vengono in visita e il primo riguardo verso l’ospite consiste nel non mostrare sorpresa. La loro presenza è rara come la neve al Sud, che arriva a fiocchi e si congeda a gocce. Intorno, la città di capodanno sta celebrando il suo incendio rituale. © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano; published by arrangement with Susanna Zevi Agenzia Letteraria, Milano
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