giovedì 26 settembre 2013
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Nell’Europa ancora dominata dai tedeschi, una rivolta popolare, nata spontaneamente in una grande città senza alcuna preparazione né organizzazione, otteneva da sola l’allontanamento delle invise truppe occupanti e accoglieva gli Alleati da città libera. È la storia che Napoli vive intensamente per quattro giorni – dal 27 al 30 settembre 1943 – con un’insurrezione patriottica, non ideologica, fatta di assalti alle caserme per rifornirsi di armi, barricate nelle strade, scontri nelle varie parti della città con morti e feriti, che avrebbe accomunato buona parte della popolazione di Napoli: civili innanzitutto, ma anche soldati, marinai, diversi ufficiali, borghesi e operai, ragazzi (gli scugnizzi, divenuti quasi un mito per il sacrificio di alcuni di essi) e giovani che volevano sottrarsi alla deportazione in Germania, madri di famiglia e anziani, tutti uniti nella difesa corale della propria comunità e anche della propria identità. E le Quattro giornate di Napoli sono diventate quasi il modello di una Resistenza di popolo contro il nazifascismo, con richiami al Risorgimento e alle rivolte popolari che avevano segnato la città nei secoli, ma che nel dopoguerra si è rapidamente appannato, fino quasi a sparire – anche per responsabilità di una certa storiografia, in gran parte di sinistra, che non ha avvertito la peculiarità di questa insurrezione.Napoli infatti era una città tormentata e piegata oltre misura da tre anni e più di guerra, con interi quartieri devastati o rasi al suolo dagli oltre cento bombardamenti  subiti (230mila i napoletani rimasti senza casa), ridotta alla fame e con le fabbriche distrutte. In questi quattro giorni, mentre gli Alleati sbarcati a Salerno si dirigevano, lentamente, su Napoli (arriveranno la mattina del 1 ottobre), mentre da Brindisi il governo Badoglio e i partiti antifascisti cercavano di riorganizzare le istituzioni dello Stato in senso democratico, mentre il grosso delle truppe tedesche iniziava a ritirarsi verso Nord, la città doveva fare i conti con una presenza germanica sempre più crudele e disumana, operante con un piano preciso di devastazioni, saccheggi nelle caserme e nei depositi militari (consentendo ai civili di fare altrettanto), rastrellamenti, massacri di cittadini, distruzione di impianti e infrastrutture con l’obiettivo di scoraggiare, facendo terra bruciata, qualsiasi forma di resistenza di una popolazione che desiderava solamente la fine della guerra. Già all’indomani dell’8 settembre, mentre gli alti comandi se l’erano squagliata lasciando Napoli senza alcuna difesa, in diversi punti della città si erano registrati degli scontri con morti e feriti, brevi ma violenti, tra i soldati tedeschi e i reparti militari italiani, sostenuti ben presto da nuclei di civili, mentre dai balconi e dalle finestre di non poche abitazioni piovevano gli oggetti più disparati per ostacolare gli occupanti. In una città allo stremo e lasciata a se stessa, a esasperare la situazione avrebbe provveduto il bando del comando tedesco per cui tutti gli uomini “validi” – delle classi dal 1910 al 1925 – dovevano essere utilizzati per lavori di fortificazione al Nord o inviati in Germania. In diversi quartieri il bando fu totalmente disatteso: invece di alcune migliaia di precettati si presentarono solo centocinquanta giovani. I tedeschi, al comando del colonnello Schöll, reagirono con una vera caccia all’uomo casa per casa, rastrellando ottomila giovani che dovevano essere concentrati nel bosco di Capodimonte per essere trasferiti altrove. I napoletani, per sottrarsi alla deportazione e salvaguardare la sopravvivenza del loro spazio comunitario, scelsero di prendere le armi contro i tedeschi. Ed è quanto avvenne nelle quattro giornate di quel fine settembre di settant’anni fa, in un susseguirsi di duri scontri tra gli occupanti e i cittadini, con un’alleanza quasi organica tra i civili e i militari. Con parecchi ufficiali a coordinare le operazioni, che si concluderanno nella notte tra il 29 e il 30 settembre: quando il comandante tedesco scese a patti con i patrioti, ottenendo la possibilità di lasciare la città. Mentre a Napoli entravano le prime avanguardie alleate.Una storia dunque tutta rinchiusa all’interno di una città in un certo senso unica e irripetibile, quella delle Quattro giornate. Nelle quali poco incisivo e sostanzialmente marginale fu il contributo politico dell’antifascismo organizzato, venuto alla ribalta pure a Napoli dopo il 25 luglio, anche se non pochi di questi antifascisti parteciparono attivamente alla lotta contro i tedeschi e saranno poi tra i protagonisti della vita democratica della città. Ma non è un caso se i taccuini di guerra di  Benedetto Croce, che pure seguiva attentamente le vicende napoletane, abbiano ignorato del tutto la rivolta popolare. Dopo settant’anni, le Quattro giornale  meritano di essere rievocate, fuori da ogni lettura retorica o da appropriazioni ideologiche, nella loro essenzialità: come una forma spontanea e originale di guerriglia urbana contro un nemico ritenuto fino ad allora invincibile, e che il coraggio di un’intera città aveva sconfitto. Non serve quindi alcun ritocco o riduzione a mito di questa vicenda, come purtroppo è avvenuto per lungo tempo.
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