venerdì 20 maggio 2016
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MILANO C’è un momento in cui i cavalli quando galoppano hanno tutti e quattro gli zoccoli staccati da terra? A volte piccole e grandi rivoluzioni partono da domande come questa. Un cavallo al galoppo è troppo veloce perché l’occhio umano possa percepire tutte le singole posizioni delle zampe. Per gli artisti non c’è mai stato dubbio: la risposta era sì, e questo sarebbe accaduto quando gli animali estendono al massimo grado i loro arti. Nel 1873 il quesito però tormenta Leland Stanford. Non un uomo qualunque: già governatore della California, è uno degli uomini più ricchi e potenti della West Coast (è lui, per inciso, a fondare la Stanford University, in onore del figlio morto). E così Stanford incarica un fotografo di risolvere la questione. Questi è Eadweard Muybridge, un inglese giunto in America in cerca di avventure e di fortuna. Le trovò entrambe. Muybridge (nome d’arte, visto che l’originale è il più prosaico Edward James Muggeridge) che aveva riscosso i primi successi anche a livello popolare fotografando la Yosemite Valley, ha un’idea geniale. Dispone davanti a una parete bianca dodici (poi saranno ventiquattro) apparecchi fotografici, i cui otturatori sono collegati ad altrettanti fili teso lungo il percorso. Quando il cavallo passa al galoppo trancia in sequenza i fili e le macchine scattano la foto. Cinque anni dopo (nel frattempo si deve difendere in tribunale per l’omicidio dell’amante della moglie, da cui è assolto – grazie probabilmente anche all’influenza di Stanford – perché il delitto è giudicato «d’onore») arriva il risultato: il cavallo sì solleva tutte le zampe da terra, ma quando le raccoglie sotto il ventre. Muybridge ordina tutte le immagini ottenute in sequenza e le fa circolare negli Stati Uniti e Europa. Il successo è enorme, gli artisti fanno mea culpa e iniziano a usare le immagini fotografiche come fonti visive di certificata verità. La fotografia vince sull’arte? Si potrebbe obiettare che nella rappresentazione artistica il cavallo disteso più che a inseguire la verità serviva a suggerire il massimo slancio dell’animale. Ma la fotografia scientifica di Muybridge, che dopo avere affrontato ogni tipo di animale passa a esaminare il movimento dell’uomo, arriva a mostrare ciò che l’occhio non può vedere. Alla Galleria del Gruppo Credito Valtellinese a Milano ha inaugurato ieri la prima “grande mostra” italiana dedicata a Muybridge. Troviamo le prime immagini di paesaggi e soprattutto decine di sequenze cronofotografiche. Accanto a queste, due notevoli film d’artista degli anni ’80 in cui Paolo Gioli rielabora, animandole, le immagini di Muybridge, e i risultati della performance (onestamente pleonastica, dato che poco o nulla aggiunge alle immagini originali) che riproduce in chiave contemporanea il metodo di lavoro del fotografo. Oggi è facile celebrare il mito del pioniere. Le sue cronofotografie, in quanto capaci di mostrare il movimento dei corpi, sono state ascritte tra le grandi anticipazioni del cinema. Ma se è così, quando e come l’opera di Muybridge, che nasce come sfida tecnologica e con pretese di obiettività scientifica, diventa arte (e nei libri di storia dell’arte la troviamo oggi)? Ovvero, quanto c’è di scientifico e quanto è invece ricerca dello spettacolo, dello stupore? Dopo che dall’animale è passato all’uomo si avverte in Muybridge uno scarto: dallo studio del movimento alla ricerca di una narrazione. Lo snodo è concettuale, perché la disposizione delle immagini è identica: nel moto del cavallo, nel volo dell’uccello, nell’andatura dell’elefante lo scopo della fotografia è la scomposizione del moto nei suoi singoli momenti, l’individuazione di una quantità definita degli infiniti punti dello spazio in cui si scompone il tempo. Questo avviene ancora nelle sequenze più semplici che riguardano l’uomo: passeggiare, salire le scale e così via. In questi casi il singolo fotogramma è più importante della sequenza, e infatti l’intero progetto nasce per individuare un momento particolare del galoppo del cavallo: dodici scatti per salvarne uno. In un secondo momento però Muybridge allestisce microdrammaturgie: una donna si china per abbracciare un bambino, una ragazza dà un bicchiere d’acqua a una compagna, un’altra ancora si riveste con una gonna; e poi muratori, falegnami e zappatori. Qui non c’è nessuno scopo scientifico. Non c’è interesse anatomico, non ci sono elementi invisibili da mostrare all’occhio. Muybridge scopre le potenzialità nel riconnettere le immagini l’una all’altra. La scomposizione del flusso si ricompone in una logica che esploderà a livello popolare di lì a pochi anni nelle comic strip, le strisce a fumetti: un’istantanea trova il suo senso solo in quella che la precede e in quella che la segue. Il fotografo si trova a costruire racconti, talvolta persino dotati di regia, mascherati sotto l’allure dell’esperimento che consente di mettere in scena soggetti gratuiti sotto l’aspetto scientifico ma la cui “scabrosità” è allettante presso il pubblico come il bacio tra due donne; o attraverso la pretesa dell’indagine patologica (la donna obesa, lo storpio, il mutilato, il paralitico) offre una messa in scena che sembra rientrare nel gusto (e persino la passione) per il freakche attraversa la cultura americana. Giustamente Paolo Gioli accosta il set fotografico di Muybridge con il Circo Barnum. Ecco allora anche i contorsionisti, gli acrobati, i cavalli equilibristi. E non c’era qualcosa di circense, ossia della degenerazione popular del meraviglioso già nella scelta di fotografare il moto di elefanti, cammelli e canguri, il combattimento dei galli? È dunque nell’intuizione della possibilità narrativa, e non nella “semplice” cronofotografia (sebbene egli stesso ne proponesse la versione animata attraverso il zoopraxiscopio, uno strumento della famiglia della lanterna magica), la tappa di avvicinamento al cinema. Una cosa non cambia però nel passaggio dalla scomposizione alla narrazione: l’occhio di Muybridge resta crudele. Che i soggetti siano uomini o animali, per il fotografo sono sempre macchine. Impossibile immedesimarci in nessuna di queste persone, tra noi e loro resta sempre una precisa e radicale. Ogni contatto è impedito. Se questo stia sul lato della scienza o, di nuovo, dei meccanismi su cui si basa lo spettacolo del morboso, è di difficile scissione. © RIPRODUZIONE RISERVATA Milano, Galleria Creval MUYBRIDGE RECALL Fino al 1 ottobre Milano Ampia retrospettiva del fotografo che a fine Ottocento studiò il moto dei corpi nello spazio Ma se lo spunto dell’opera è scientifico, l’esito è narrativo SCATTI Due opere di Eadweard Muybridge: a sinistra, “Cacatua in volo”, 1887; sotto “Cavallo al piccolo galoppo”, 1887. Londra, Wellcome Library
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