venerdì 10 aprile 2015
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«Era il 1964, avevo 23 anni. Arrivato da poco a Milano, allievo del Conservatorio. Un anno prima Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, era stato eletto Papa. E il Conservatorio era pronto a una trasferta a Roma per rendere omaggio a Paolo VI: orchestra e coro degli allievi avrebbero suonato per il Pontefice. Scelsero me per salire sul podio» ricorda oggi Riccardo Muti. Un incontro quello con Paolo VI che il maestro porta ancora nel cuore.
«Per lui, uomo di profonda cultura, scelsi pagine di Scarlatti e Vivaldi» racconta Muti che il 19 maggio con la sua Orchestra giovanile Luigi Cherubini sarà al Teatro Grande di Brescia (replica il 20 al Donizetti di Bergamo) per un concerto, cuore del cartellone 2015 del Festival pianistico internazionale di Brescia Bergamo che apre il 25 aprile: Mozart, Schubert e Verdi per ricordare il Papa, proclamato beato lo scorso 19 ottobre. «In quel concerto in Vaticano, tra le coriste, c’era Cristina Mazzavillani, una ragazza che sarebbe diventata poi mia moglie – sorride il direttore d’orchestra –. Quella trasferta segnò l’inizio della nostra storia che dura ancora oggi, con figli e nipoti. Una famiglia nata con la “benedizione” di Paolo VI».
 

Un giovanissimo Riccardo Muti incontra Paolo VI © www.riccardomutimusic.com
 
Maestro Muti, a cinquant’anni di distanza torna a fare musica per Paolo VI. Che ricordo conserva di quel giorno?
«Una foto, che mi ritrae giovanissimo. Ma soprattutto la memoria di un’esperienza musicale e spirituale unica, l’incontro con un grande uomo di fede, vissuta e trasmessa. Lo diceva il modo di parlare, ma soprattutto il modo di essere di Montini: era un uomo di profonda cultura, anche di cultura musicale, consapevole di quanto la Chiesa avesse contribuito alla Storia della musica. Perché è impensabile considerare la musica europea senza l’apporto della Chiesa. La storia europea si compenetra con le vicende de cristianesimo, dimenticarlo vuol dire rinnegare le nostre radici».
 
Eppure oggi l’Europa sembra incamminata su una via di laicizzazione ed essere cristiani nel mondo vuol dire metter in conto il martirio, pensiamo alla Siria o all’Iraq.
«Sono un musicista, non un politico o un diplomatico, ma posso dire con forza che questo è un nodo che va affrontato e risolto. Negare il cristianesimo significa negare duemila anni di storia, significa non riconoscere che monumenti, scritti, poemi che sono patrimonio dell’umanità poggiano sui pilastri della cultura cristiana. Una cultura alla quale attingono anche non cristiani traendone insegnamenti per la loro vita. Si può non credere, ma non si può eliminare la fede cristiana, perché altrimenti si rischierebbe di eliminare una parte di noi stessi».
 
Non ha mai pensato a un suo impegno politico?
«Quello di direttore d’orchestra è già un impegno gravoso. Che ha anche un suo risvolto politico, se vogliamo vedere. Direi che mi basta questo».
 
Nel 1964 Paolo VI. Negli anni successivi ha diretto anche per gli altri Pontefici.
«Ho fatto musica davanti a Giovanni Paolo II in Vaticano con i Wiener philharmoniker e con l’Orchestra Rai. Ma anche al Teatro alla Scala dove Woytjla è venuto nel 1983: al termine del concerto fu lui a venire verso di noi sul palco. Ho diretto anche davanti a Benedetto XVI: in quell’occasione papa Ratzinger diede una grande lezione parlando a braccio di musica e intrecciando il suo significato profondo con i temi dello spirito».
 
Le manca Papa Francesco.
«Sarebbe un onore fare musica davanti a lui. Perché la mia storia di musicista nasce ancora una volta in un contesto di fede. Il mio primo concerto come violinista l’ho tenuto a 8 anni nel seminario di Molfetta. E tra i seminaristi che erano venuti ad ascoltarmi c’era anche don Tonino Bello. Sempre a Molfetta, quando avevo 13 anni, mi sono intrufolato sull’organo della basilica della Madonna dei Martiri, mi sono seduto alla tastiera e ho attaccato il Brindisi della Traviata. Una tirata d’orecchie me la sono meritata. Per papa Francesco dirigerei una Messa di Franz Schubert per la dolcezza che trasmette, per il carattere di misericordia che ha, misericordia che Francesco invoca sempre».
 
Dopo l’addio all’Opera di Roma i giovani della Cherubini sono gli unici con cui fa musica in Italia. Ha deciso di dire addio al nostro Paese?
«Anzi. Se mi dedico ai giovani è perché tengo all’Italia. Lavorare con loro vuol dire dedicarsi al futuro del nostro paese. Cerco di insegnare loro il senso etico della professione. Che vuol dire non solo suonare, ma suonare per rendere migliore la società e contribuire a ridare all’Italia quella considerazione internazionale che con il tempo abbiamo perduto. Occorre che il nostro Paese si riprenda un primato che gli spetta, quello di patria di grandi artisti. Che possa sentirsi degna di un passato glorioso. Certo, la strada è lunga. Occorre una svolta, un cambio radicale di passo da parte della classe politica: l’Italia non è più il paese dei turisti e è necessario tornare ad offrire a tutti le nostre bellezze naturali e artistiche, curandole e conservandole, evitando gli abbandoni e le disattenzioni come a Pompei».
 
L’attenzione ai giovani si concretizzerà con la Riccardo Muti italian opera academy, un nome altisonante…
«Iniziamo in estate da Ravenna. Sarà una scuola per direttori e maestri accompagnatori, figure che mancano in molti teatri. Un modo per conservare e trasmettere un patrimonio tutto italiano, quello dell’artigianato della preparazione dell’opera. Ho visto l’opera bistrattata da direttori e registi, in nome di una becera tradizione fatta di note non scritte, di acuti lanciati come numeri da circo. Ho avuto la fortuna di essere stato allievo di Antonino Votto, erede diretto di Arturo Toscanini. E quello che ho imparato vorrei lasciarlo ad altri, perché questo patrimonio non vada disperso».
 
Tempo di bilanci?
«Non ne faccio perché li ho sempre fatti verificando ogni giorno il mio percorso di musicista e di uomo».
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