venerdì 20 marzo 2020
Il 22 marzo cadono i 70 anni della morte del grande intellettuale. In tempo di crisi le sue idee sulla persona e sulla comunità tornano di grande attualità
Emmanuel Mounier

Emmanuel Mounier - Archivio Avvenire

COMMENTA E CONDIVIDI

In un forte discorso rivolto dal Papa alla Curia romana il 22 dicembre 2019 Papa Francesco ha osato affermare che «non siano più in regime di cristianità, perché la fede, specialmente in Europa ma pure in gran parte dell’Occidente, non costituisce più il presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Parole forti, che rendono penosi sul futuro del Cristianesimo e indicano comunque un passaggio, talora traumatica, da una fede di popolo a una fede di élites. Leggendo queste parole non si può non riandare al dibattito che, in tutta Europa ma con particolare vivacità in Italia e in Francia, si è aperto, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, in tutta Europa; dibattito che merita di essere ripreso in occasione del 70° anniversario della morte di Emmanuel Mounier (1905– 1950), anche perché esso ha suscitato largo interesse nella cultura italiana, a partire da L’utopia della nuova cristianità di chi scrive e da La “nuova cristianità” perduta di Pietro Scoppola. È interessante osservare che né il primo né il secondo editore italiano dell’opera e cioè “La Locusta” di Vicenza (Agonia del Cristianesimo) ed “Ecumenica” di Bari (Cristianità nella storia) hanno osato mantenere la forza, e la ruvidezza, dello scritto mounieriano.

Sembrò infatti che il filosofo francese fosse ammalato di “castrofismo” e che la sua denunzia della crisi in atto della “cristianità europea” – travolta dalle molte barbarie del Novecento – fosse esageratamente pessimistica e non tenesse conto del forte risveglio religioso che, un po’ in tutta Europa, si era verificato in non pochi paesi, e in particolare in Italia e in Francia, sino a indurre a riproporre anche grazie al “sogno europeistico” di tre grandi statisti cattolici, (Adenauer, De Gasperi, Schuman) l’ideale di un cristianesimo ridiventato cuore pulsante dell’Occidente. A partire dal suo “ottimismo tragico” – insieme consapevolezza della drammaticità del momento e fiducia nella capacità di ripresa del cristianesimo – Mounier non condivideva questo “sogno” di un’Europa cristiana ma mostrava tutte le incertezze e le ambiguità di questo presunto “ritorno” alla fede dei Padri. Ricordava, in pagine graffianti, le ombre, le ambiguità, talvolta le vere e proprie aberrazioni che il cristianesimo aveva dovuto registrare nel corso della storia, anche e soprattutto in quel Medioevo spesso idealizzato che era stato, in verità, quello delle cattedrali, dei Santi, dei grandi pensatori e artisti che popolavano l’Europa medievale, ma anche un’epoca di eresie, di feroci guerre fratricide di una fede talora imposta con la violenza, delle pesti e della miseria. Una “cristianità” in senso pieno non è mai esistita e alle luci si sono sempre accompagnate le ombre. In ogni epoca della storia, che la “cristianità” coincidesse con la società è stata una “grande illusione”: mai, in nessuna epoca, nemmeno in quelle ritenute le “più felici”, è stato possibile liberare la storia delle sue impurità: con esse, in ogni età (anche nella stessa Chiesa) il non costituisce un “arretramento” in quanto segna, semplicemente, un “limite invalicabile”.

In questo senso, secondo il pensatore francese, una “cristianità” intesa come società totalmente cristiana, non è mai esistita né potrà mai esistere. Il cristiano cambia nella storia conoscendone, ed egli stesso vivendone nella sua carne, l’ambivalenza. Permane tuttavia l’influenza del cristianesimo sulla società e un legame fra “ispirazione cristiana” e società (in misura ora massima ora minima). Quella del cristianesimo è sulla storia un’influenza paradossale: indica un traguardo che mai nel tempo potrà essere raggiunto e che solo alla fine dalla storia potrà realizzarsi. Né ciò deve ridurre il forte impegno del credente nella storia perché essa rimane il campo che i cristiani sono permanentemente costretti a zappare e a innaffiare ben sapendo che, a ogni primavera, il grano e la zizzania sorgeranno insieme: sempre, sino alla fine dei tempi. La dura e appassionata denuncia di Mounier delle permanenti tensioni del rapporto fra cristianesimo e storia anticipa la consapevolezza della strutturale ambiguità di ogni azione umana. Non vi è mai stata né mai vi sarà una “cristianità” storica – come riconosce papa Francesco – ma solo una Cristianità escatologica, alla fine dei tempi, quando sarà operata la divisione fra il grano e la zizzania, quando sarà estirpata definitivamente la radice del male. Nel frattempo – ed è questa la lezione che le pagine mounieriane ripropongono, pure in scenari profondamente mutati – occorre impegnarsi sino in fondo, pervicacemente, non per edificare una “Città di Dio” che potrà realizzarsi solo oltre la storia ma per costruire una Città dell’uomo aperta, serena, accogliente, alla cui costruzione i cristiani sono chiamati come a un compito irrinunciabile.

Rileggere queste pagine di Mounier, a settant’anni dalla sua morte prematura, non significa in alcun modo cedere al pessimismo o rifugiarsi nella nostalgia di una “cristianità” definitivamente perduta ma acquistare nuova consapevolezza delle ineliminabili ambiguità di una storia che tuttavia il credente non può disertare ma deve abitare. È questo il senso profondo di una lezione, come quella di Mounier, per molti aspetti ancora attuale e che merita di essere riproposta, come il rimanente della sua opera, a partire da quello che può essere considerato il suo capolavoro filosofico, e cioè Il personalismo (1949), quasi suo testamento spirituale.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: