giovedì 26 maggio 2016
Buondì Motta, il terzo incomodo
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A Gianni Motta non si può dare che del “tu”, visto che ancora oggi pare essere un ragazzino, con quel sorriso che disarma e due occhi celesti che è impossibile non guardare. Ieri festa per Roger Kluge, che beffa i velocisti e vince la sua prima tappa al Giro. Festa per Kruijswijk che conserva la rosa e sente profumo di vittoria. E per lui, Gianni Motta da Cassano d’Adda: terra di campioni, visto che qui, in questa terra lombarda, sono cresciuti dei campionissimi del calcio del calibro di Valentino Mazzola e Giacinto Facchetti. Si fa festa per l’arrivo del Giro. Si fa festa per il successo rosa ottenuto cinquant’anni fa dall’illustre cittadino. «E in pratica lo vinsi sulle strade del Trentino in due tappe cruciali – ricorda lui, che in questo Giro pedala tutti i santi giorni con la maglia di Mediolanum, per la quale è testimonial al pari di Moser, Fondriest e Bettini –. Ero già in rosa, l’avevo strappata a Vittorio Adorni nella tappa della Maddalena, però il Giro era ancora lungo, tutto da fare. Così nella Riva del Garda-Levico Terme mi trovo nella condizione di difendermi con i denti sulla salita di Vetriolo. Faccio una fatica bestiale, però in discesa riesco a riprendere Julio Jiménez e lo batto allo sprint. Due giorni dopo, la prima tappa dolomitica. Il tempo è terribile, sarebbe meglio rimanere in albergo. Invece via, tutti in sella, e io ad un certo punto resto in testa con Anquetil e Zilioli dopo aver staccato l’avversario più temibile, il solito Jiménez. Quella vittoria rosa è stata un piccolo grande capolavoro: il via da Montecarlo, davanti al principe Ranieri e Grace Kelly, l’arrivo trionfale a Trieste. Io davanti a tutti con Zilioli a quasi 4” e Anquetil a quasi 5”». Motta, talento assoluto. Corridore completo e abile su tutti i terreni, con uno spunto di velocità che fa male a tanti. Audace, impertinente e irriverente: non ama essere catalogato o bloccato in uno schema, in un progetto. Il suo spartito è la strada, e le sue note distintive la creatività. «Ero e resto un temerario, uno che quando sente di fare una cosa la fa – ci dice –. Per certi versi come Vincenzo Nibali: un puledro di razza, che ora sta soffrendo. Pensavo e speravo che potesse vincere il Giro, ma non è il caso di fare drammi: va piano, amen. Càpita. Si volta pagina e si va avanti. Certo che avrà sbagliato qualcosa: alimentazione, preparazione, oppure molto semplicemente ci sono dei momenti che vai così. Il fisico ha i suoi tempi, i suoi perché. Oggi cerchiamo sempre di dare una spiegazione a tutto e magari il senso non c’è, se non che alla natura bisogna solo inchinarsi. Ogni tanto il fisico di ribella, ha voglia di prendersi una pausa, anche quando non hai voglia di fare ricreazione».  È tra quelli che possono dire d’aver pedalato davvero con una gamba sola, visto che la sua carriera viene condizionata irrimediabilmente da un incidente. Nel maggio 1965, al giro di Romandia, un’auto di giornalisti lo sbatte per terra e gli passano sopra la gamba. «Quell’incidente mi ha incrinato l’arteria iliaca, che pian piano si chiudeva – racconta Gianni –. Nel 1970 vengo operato dal professor Cevese a Padova, ma ormai la testa ce l’ho da un’altra parte. Ho messo su un mobilificio, un maglificio e un’azienda di bici». Così a soli trentun anni Motta diventa un ex. Lui, il Gianni Motta da Cassano d’Adda, non si è mai sentito un fenomeno, ma nemmeno un malato immaginario. «Non l’ho mai sopportato – ci racconta –. Mi hanno fatto passare per quello che non sono mai stato: un “piangina”. Uno che si lamentava così, tanto per farlo, un malato immaginario, uno che era sempre pronto a trovare una scusa. Quel problema alla gamba, purtroppo, mi ha condizionato parecchio. Diciamo pure che dal ’67 in poi non mi ha dato più pace. Ho corso davvero molto poco da sano. E quello che valevo l’ho fatto vedere al Giro del ’66». Ah, il Giro del 1966… Universalmente conosciuto come il “terzo incomodo” nella leggendaria sfida tra Eddy Merckx e Felice Gimondi, Gianni Motta fa innamorare l’Italia. Ed è esattamente qui che si forma l’opinione di tanti addetti ai lavori, secondo i quali questo Motta, sano e arruolato, avrebbe potuto duettare con il meglio del ciclismo di sempre e avere un palmarès proporzionale alla sua immensa classe. «In quel Giro sono stato certamente il più forte e posso dire di averlo vinto due volte: contro gli avversari e contro i tifosi di Felice Gimondi, che mi accusavano di tutto e di più, anche di alto tradimento. Ad un certo punto volevo tornare a casa, non ne potevo più di sentire che io facevo il furbo per far perdere il Giro a Felice a beneficio di Anquetil. Vero niente, io ho sempre e solo corso per me stesso. Sa quanti cartelli lungo le strade contro il sottoscritto? Una montagna. Davano fastidio anche ai miei avversari. Un giorno, su uno di questi c’era scritto l’indicibile». Un gregario di Anquetil, forse Novak, scese di bici e lo spaccò. «Non è giusto», disse. «Il bello è che scrivono: Gianni è troppo nervoso. E come posso non esserlo. I “mottiani” in ogni caso sono gente tranquilla, altri no».
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