martedì 25 luglio 2017
La celebre istituzione dell’antica Ninive era stata distrutta dal Daesh. Ora che la città è liberata, un prof e alcuni studenti lanciano una raccolta di libri
Quel che resta della biblioteca dell’Università di Mosul dopo il passaggio del Daesh (Reuters/Ahmed Jadallah)

Quel che resta della biblioteca dell’Università di Mosul dopo il passaggio del Daesh (Reuters/Ahmed Jadallah)

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Macerie dappertutto, scheletri polverosi di palazzi bombardati, una distruzione talmente massiccia da rendere arduo orientarsi persino a chi, tra le strade della città vecchia di Mosul, ha trascorso tutta la vita. È drammaticamente monotono, oggi, il panorama dell’antica Ninive, un tempo famosa per i suoi monumenti e la vitalità culturale e ora, suo malgrado, simbolo del bigottismo feroce del califfato nero in Iraq. E adesso che, dopo tre anni di occupazione, la città è finalmente libera dai tentacoli mortali del Daesh, il mondo intero può constatare lo sfregio che le è stato inflitto da chi voleva evidentemente non solo conquistarla, ma piegarne lo spirito di apertura e convivenza tra etnie e fedi diverse. «Quando diedero alle fiamme la biblioteca centrale dell’Università dove avevo studiato e dove insegnavo da un anno, rimasi completamente scioccato: vidi con i miei occhi bruciare montagne di libri, uno spettacolo orribile. Per l’Isis quei libri erano pericolosi, perché se le persone leggono aprono la loro mente e non sono più controllabili, non sono più influenzabili da un’ideologia di morte». A parlare è Mosul Eye, pseudonimo scelto da un professore di storia che, in questi anni, attraverso il suo blog ha raccontato al mondo la vita della sua città ai tempi dello Stato islamico. «Quella gente voleva decidere per noi che cosa potevamo leggere, eliminando tutto ciò che considerava 'blasfemo' o 'anti-islamico': praticamente tutta la letteratura e la scienza», racconta al telefono. L’Università di Mosul, fondata nel 1967 e considerata tra le migliori del Medio Oriente - i suoi 30 mila studenti potevano scegliere tra 22 facoltà di cui le più quotate erano scienze e medicina - pagò un prezzo altissimo a questo fanatismo. La sua biblioteca conservava centinaia di migliaia di testi in arabo e in inglese, mappe storiche e testi risalenti all’era ottomana oltre ad antichi manoscritti islamici, tra cui un Corano del nono secolo. Non sorprende che, quando nel 2015 il Daesh occupò il campus, sulla sponda orientale del Tigri, la prese pesantemente di mira, insieme alla biblioteca centrale di Mosul e ad altre minori, in quello che l’Unesco definì «uno degli atti più devastanti di distruzione di collezioni librarie della storia». L’obiettivo, secondo la direttrice Irina Bokova, era «eliminare la diversità culturale che è l’anima degli iracheni». Sotto lo Stato islamico, o meglio lo Stato terrorista, i miliziani forzarono i professori che non erano riusciti a fuggire a riscrivere i testi scolastici, per adattarli al nuovo sistema educativo imposto dal califfato. Ecco perché, per fare rinascere dalle ceneri la sua città, Mosul Eye ha deciso di cominciare dal patrimonio culturale, e di farlo un libro alla volta. «Dal mio blog – racconta – ho lanciato una campagna rivolta a privati cittadini, associazioni irachene e straniere, accademici, editori. Ho chiesto di aiutarci a raccogliere pubblicazioni scientifiche, periodici, testi in qualunque lingua per riempire di nuovo i nostri scaffali e riconnetterci con la cultura universale, da cui siamo stati tagliati fuori con la violenza per troppo tempo». La risposta all’appello è stata sorprendente. Già a fine maggio, quando sulla sponda ovest del Tigri ancora infuriava la battaglia, lo storico aveva promosso un primo evento per ridare vita alla biblioteca universitaria. «Sul mio sito pubblicai un annuncio in cui chiedevo la disponibilità di una ventina di studenti per organizzare un festival culturale. Mi scrissero più di cento giovani». E così, fuori dal campus ridotto a uno scheletro annerito, il pubblico ha potuto assistere a un’esibizione musicale e a una mostra di pittura, mentre le fotografie appese con dei fili ai resti delle pareti raccontavano la vita della città in guerra. Biglietto d’ingresso al festival: un libro. Che i giovani di Mosul siano ansiosi di tornare alla normalità lo conferma anche il rettore dell’Università, la cui sede è stata temporaneamente spostata a Duhok, nella regione autonoma curda. «Dall’inizio dell’occupazione, solo il 20% circa degli studenti ha potuto continuare a frequentare i corsi fuori Mosul: per chi è rimasto, qualunque insegnamento era proibito», spiega Obay al-Dewachi. «Negli ultimi mesi, con la liberazione della zona est della città, alcune facoltà sono ripartite, e a giugno un gruppo di allievi ha potuto sostenere gli esami, ma il problema sono i giovani che abitano oltre il Tigri. I collegamenti tra le due sponde sono molto complicati. Mi auguro che presto i trasporti tornino a funzionare». Intanto, dall’estero enti e associazioni si sono mobilitati per rispondere all’appello di Mosul Eye e dei suoi volontari: università statunitensi ed europee, librerie e associazioni, dalla Francia all’Egitto, accademici iracheni della diaspora (particolarmente attivi quelli di Australia e Nuova Zelanda) hanno cominciato a inviare scatoloni di libri. E donazioni sono arrivate anche dal resto del-l’Iraq, come nel caso del college dei gesuiti a Baghdad, mentre esponenti politici e autorità religiose si sono espressi a supporto della campagna. «Abbiamo già raccolto quasi 10 mila testi, ma almeno altri 45 mila sono in attesa di poter essere spediti», calcola entusiasta il blogger. «Il problema è la logistica, visto che i combattimenti non sono cessati del tutto e le infrastrutture sono distrutte ». Ma sia lo storico che il rettore al-Dewachi sono fiduciosi che la pressione dei cittadini e il supporto concreto del mondo accademico internazionale spingano il governo iracheno a occuparsi della rinascita anche culturale di Mosul. Non pensate, chiediamo, che in una situazione umanitaria tanto drammatica la gente abbia ben altre priorità che leggere libri? Mosul Eye non ha dubbi: «Posso testimoniare che i nostri giovani hanno sete di cultura e conoscenza, vogliono concentrarsi sulle cose belle e vedere la loro città tornare al suo ruolo di faro di civiltà. È l’unico modo per ripartire davvero, e non cedere più in futuro alle lusinghe ingannevoli del fondamentalismo».

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