lunedì 2 gennaio 2017
Centosettanta immagini della collezione UniCredit esposte al Pavilion in "Look at me. Da Nadar a Gursky". Una lettura della società attraverso le facce e i corpi di gente comune e artisti famosi
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Noi e l’immagine di noi. Protagonisti dello scatto e non più spettatori. Il pensiero va immediatamente al famigerato selfie. Ma la storia della fotografia, come della pittura, è segnata da sempre da ritratti e autoritratti. Di gente comune, della strada, di personaggi famosi. E se oggi, nell’epoca del digitale e della “democratizzazione” della fotografia il ritratto è ovunque, quindi scontato e forse banalizzato da eccessi narcisistici ed esibizionistici, fino alla metà dell’Ottocento raccontarsi in prima persona non era così ovvio e naturale: il ritratto era una sorta di messa in scena che presupponeva una certa preparazione, non era un’azione spontanea. «Il tema del ritratto come filo conduttore della mostra risponde a una ragione che non è solo di carattere storico e artistico, ma vuole essere ancora una volta un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con le immagini, con il loro significato e con il loro uso, a partire dai grandi esempi della produzione artistica del presente e del passato», così il curatore Walter Guadagnini spiega il senso di Look at Me! Da Nadar a Gursky all’UniCredit Pavilion di Milano (fino al 29 gennaio), tratta dalle collezioni del gruppo bancario in Italia, Austria e Germania. Centosettanta opere scelte fra le 4mila, storiche e contemporanee, che compongono il “portafoglio” di UniCredit e offrono una panoramica dalla fine dell’800 ai nostri giorni. Dal grande pioniere francese fino al fotografo tedesco fra i massimi esponenti della scuola di Düsseldorf, passando per nomi che hanno fatto e fatto la storia della fotografia.

Il percorso espositivo si snoda nei vari ambienti della struttura in legno ai piedi dei grattacieli di Piazza Gae Aulenti attraverso sei sezioni, per presentare diversi tipi di ritratto: c’è la persona in rapporto al contesto in cui vive, “il volto della società”, come la Donna cieca di Paul Strand, i lavori sui nativi d’America di Edward Curtis, il dopoguerra di Weegee, gli scatti di Henri Cartier-Bresson ad Amburgo e le scene di vita milanese di Gianni Berengo Gardin. Ma anche individui in rapporto alla massa, quella giocosa dei bagnanti dell’abbagliante mare di Mondello di Massimo Vitali o quella estrema al punto che la persona “sparisce” come parte di un universo enorme, nel caso del May Day di Andreas Gursky. Lungo la passerella scorrono invece i ritratti più tradizionali, le facce, con gli artisti come modelli, le celebrità nelle foto di Nino Migliori, Claudio Abate, Aurelio Amendola, Enrico Cattaneo. Mimmo Jodice fotografa il camminamento pensoso dell’artista tedesco Joseph Beuys in Natale a Gibellina; un particolare omaggio è dedicato a Elisabetta Catalano che negli anni Settanta immortala i principali artisti della scena contemporanea, da Michelangelo Pistoletto a Andy Warhol (nello scatto esposto è con Dacia Maraini e Monica Vitti).

Ma non possono non colpire i lavori di Étienne Carjat (1828-1906) nella serie dei ritratti dei grandi scrittori francesi, Charles Baudelaire, Emile Zola e Alexander Dumas padre; o di Nadar e il suo scatto a Victor Hugo nel suo letto di morte. «L’attrazione per i personaggi famosi, che siano reali, politici, attori, registi, pop star, accompagna la storia del mondo – scrive Neve Mazzoleni in uno dei testi pubblicati sul catalogo (Silvana Editoriale) –. La fama, come un’aurea magica, avvolge queste personalità emergenti per qualità e caratteristiche speciali. La diffusione dell’immagine del “ricco e famoso” risponde sia a specifiche necessità di promozione dello stesso, sia all’appagamento del desiderio di vicinanza della “gente comune”. Fin dalla nascita della fotografia, il ritratto della persona nota ha risposto a queste necessità, soprattutto in assenza della televisione, fino a trasformarsi successivamente in forma di consumo di massa».

La conclusione è nel “ritratto del corpo”, nella “messa in scena” con cui si costruisce il ritratto: e qui spiccano dieci immagini emblematiche di Diane Arbus «dove in qualche modo – riprende Guadagnini – si concentra gran parte della storia del ritratto, sia passato che futuro». Il ritratto per raccontare chi siamo. Una sintesi, fra sogno e realtà, che il curatore affida a una citazione dello scrittore Jorge Luis Borges: «Un uomo si dà il compito di disegnare il mondo. Man mano che passano gli anni riempie lo spazio con l’immagine di province, reami, montagne, golfi, navi, isole, pesci, stanze, strumenti, stelle, cavalli e persone. Appena prima di morire scopre che questo suo paziente labirinto di linee è una traccia del suo volto».

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