venerdì 4 aprile 2014
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Mettere in connessione, individuare punti, superfici e strutture di incontro. È il file rouge che lega tutti i progetti di Renzo Piano e che emerge bene dalla mostra che la Biennale internazionale Biennale internazionale di Architettura “Barbara Cappochin” (giunta alla sesta edizione) gli dedica a Padova, con un’ampia selezione di progetti dagli esordi a metà anni 60 fino a oggi (accompagna la mostra una monografia edita da Electa, a cura di Francesco Dal Co, che presenta l’opera completa dell’architetto). Riconessione che può essere quella del tessuto urbano, sia come porzione di territorio che come luogo di storie (il porto antico di Genova, Potsdamer Platz, la riqualificazione in fieri di Sesto San Giovanni, ma anche il laboratorio di quartiere nel centro storico di Otranto, progetto di architettura sociale del 1979) come la traguardabilità degli spazi, la comunicazione ottica di esterno e interno. Ecco allora la trasparenza del "New York Times” building simbolo di contatto tra mondo e informazione, o quella del nuovo campus della Columbia University, sempre nelle metropoli americana, integrazione tra sapere e città. Trasparenza e accessibilità sono ancora i principi di un’opera come il Centre Pompidou. Nei molti spazi espositivi (un numero tale che obbliga a una riflessione sul ruolo di Piano nell’elaborazione del museo contemporaneo) il fuoco progettuale è la duttilità della mediazione, diremmo il contatto, tra luce e opera. C’è poi l’architettura che ambisce a connettersi all’ambiente, come nelle formidabili vele in iroko del Centre Culturel Jean-Marie Tjbaou in Nuova Caledonia, le onde del Zentrum Paul Klee a Berna o lo sfrangiarsi della cuspide dello Shard, a Londra. Solo così possono coesistere lavori molto diversi che rivelano la riflessione sul moderno di Mies van der Rohe o di Nimeyer accanto agli scarabei del Parco della Musica di Roma o la lorica simile a una lumaca dell’Istituto Pathé a Parigi.L’allestimento, bellissimo, realizzato dallo stesso Renzo Piano Building Workshop, dedica a ogni progetto un tavolo, come un quartiere di una vasta città, documentato con l’ausilio di modelli in scala, elementi costruttivi, schizzi, studi, fotografie, video. Dall’alto della volta a carena del Palazzo della Ragione pendono grandi riproduzione fotografiche e, soprattutto, modelli di strutture e particolari progettuali che ricordano scheletri di un museo di storia naturale, suggerendo un’origine organica almeno per parte dell’architettura di Piano, come le “ossa” degli shed della De Menil collection. Mentre la partitura del Prometeo di Nono suggerisce l’origine musicale del modulo, che potremmo definire «a pentagramma», delle griglie frangisole che così frequentemente stratificano le superfici di Piano.Questi progetti mantengono ciò che promettono? Non sempre. Esemplare è il caso di Trento, dove accanto alla fortunata esperienza di MuSe si espande il quartiere delle Albere, fallimento ecochic di edilizia da archistar, rimasta praticamente vuota. È un problema che lega architettura (evidentemente non solo quella di Piano) e programmazione pubblica. Ma è su questo che si misurano pregi e difetti dell’architettura di oggi, perfetta nel creare edifici di servizio (dai musei ai teatri agli aeroporti), tanto iconici quanto funzionali, capaci di disegnare nuove identità ma in difficoltà nel dare forma all’abitare quotidiano, risolto in spazi e organismi urbanistici in cui la qualità teorica fatica a tradursi in praticabilità. Un difetto che risiede direttamente nell’aspirazione all’utopia (impossibile per definizione e inumana ogni volta che viene attuata) propria dell’architettura, sì di ogni tempo ma ingigantita, nelle proporzioni e negli effetti, in quella moderna e contemporanea.Padova, Palazzo della RagioneRenzo Piano pezzo per pezzoFino al 15 luglio
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