lunedì 16 aprile 2018
Aveva 88 anni. Con il fratello Paolo un sodalizio durato 55 anni. I film, la carriera. Per volere della famiglia non ci sarà camera ardente.
Vittorio Taviani in una foto del 2015 (Ansa)

Vittorio Taviani in una foto del 2015 (Ansa)

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Rifuggire dalla retorica, ovvero «non usare mai angolazioni di ripresa esaltanti ma mostrare sempre la realtà». Era questo il compito che Vittorio Taviani attribuiva al cinema, un'idea “politica” che è diventata la cifra stilistica stessa di tutti i film che il regista, scomparso domenica scorsa all'età di 88 anni, ha realizzato con il fratello Paolo in cinquantacinque anni di carriera. Eppure, nell'intera opera dei fratelli di San Miniato non è mai mancata un'eleganza estetica della luce e delle inquadrature, altra originale connotazione della loro cinematografia.

Con la morte di Vittorio si spezza un sodalizio unico nella storia della Settima Arte, diverso da quelli dei fratelli Coen, dei Farrelly e delle Wachowsky ma simile al modo di girare dei Dardenne: una coppia di registi che lavorano sempre insieme, nella scrittura, sul set e soprattutto in sala di montaggio. «In sede di moviola – diceva Vittorio – il film si reinventa, si conferma o si nega come durante le riprese e la fase di progetto».

Il debutto dei Taviani sul grande schermo risale al 1962 con Un uomo da bruciare, interpretato da Gian Maria Volonté, ispirato alla vita di Salvatore Carnevale, bracciante socialista assassinato a colpi di lupara nel 1955. A loro si devono capolavori entrati della storia del cinema italiano, da Allosanfàn (1974), ambientato nel periodo della Restaurazione, con Marcello Mastroianni, Lea Massari e la potentissima musica di Ennio Morricone, a Padre padrone (Palma d'oro a Cannes nel 1977), tratto dal best-seller di Gavino Ledda, con Saverio Marconi splendido protagonista, da La notte di San Lorenzo, episodio della strage di San Miniato compiuta dall’esercito americano (inizialmente attribuita ai tedeschi) durante la Seconda guerra mondiale, a Kaos (1982), trasposizione di novelle pirandelliane, fino a Cesare deve morire (Orso d'oro a Berlino nel 2012, nella foto sotto la premiazione) che riprende la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia.

Il loro ultimo film, in realtà firmato solo da Paolo perché Vittorio era già malato (per i postumi di un colpo di schiena causato da un investimento stradale), è stato Una questione privata (2017) dal romanzo di Beppe Fenoglio.

I Taviani hanno raccontato la storia e le contraddizioni del nostro Paese. «Vogliamo esprimere la religiosità del politico: è il nostro modo, da atei, di cercare Dio» spiegavano. «Con Vittorio era un piacere chiacchierare di qualsiasi argomento dal cinema alla musica – ricorda lo scrittore Gavino Ledda –, era sempre prodigo di consigli e incoraggiamenti. Poco tempo dopo l'uscita di Padre padrone a Roma ebbi un malore: lo chiamai e lui, insieme a Paolo, si precipitò in albergo portandosi dietro il suo medico e mi rimase vicino fino a quando non ripresi le forze. Ecco, in questo dettaglio apparentemente insignificante, ritrovo tutta l'umanità e l'altruismo di Vittorio». Per volontà della famiglia non ci saranno né funerale né camera ardente.

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