mercoledì 3 febbraio 2021
Era nato a Caravaggio nel 1931. Con il suo sguardo etico e profondamente sacro ha raccontato la verità del mondo rurale. Sue le immagini più celebri del pontificato di Giovanni Battista Montini
Pepi Merisio (1931-2021)

Pepi Merisio (1931-2021) - Marco Pasini

COMMENTA E CONDIVIDI

Pepi Merisio è morto questa notte nell'ospedale di Bergamo. Era nato a Caravaggio nel 1931. Se ne va non soltanto uno dei grandi fotografi del Novecento italiano ma soprattutto un maestro di umanità. Grande amico (e lettore attento e critico) di "Avvenire", le sue foto sono state al centro di numerosi servizi di "Luoghi dell'Infinito". Il suo archivio fotografico, che conta 252.000 diapositive, 165.000 negativi su pellicola e 154.000 stampe, è stato recentemente conferito al Museo delle Storie di Bergamo.

Schietto, generoso, terragno, autenticamente lombardo, Pepi Merisio è stato il grande cantore, elegiaco ed epico insieme, di una civiltà contadina che stava evaporando davanti all'avanzata dell'industria e della società di massa. Ed è stato "il" fotografo di Paolo VI, del quale non solo ha documentato tutto il pontificato nei suoi passaggi più rivoluzionari ma ha restituito in immagini memorabili, destinate a diventare icone del Novecento, tutta la portata innovativa e insieme il volto più autentico e intimo di Montini: il papa e l'uomo. Senza Merisio la nostra percezione della complessa grandezza di Paolo VI oggi sarebbe più difficile.

Dopo gli inizi come fotoamatore negli anni 50, Pepi Merisio entra nel novero della fotografia internazionale con il reportage "In morte dello zio Angelo", nel 1963. Il servizio vince la prima edizione del Premio Fermo e viene pubblicato sulla rivista tedesca Du. Merisio inizia così una carriera di fotoreporter in collaborazione con le principali testate italiane ed europee, come Paris Match, Camera, Réalité, Stern. Per Epoca nel 1964 realizza un servizio su Paolo VI dal titolo "Una giornata con il Papa". Inizia così un rapporto privilegiato che accompagnerà tutto il pontificato di Montini e in tutti i suoi momenti storici, dai viaggi apostolici alla Messa di Natale all'Ilva di Taranto, ma anche i momenti più privati come le passeggiate nel giardino di Castelgandolfo.

Nel 1969 pubblica la sua prima opera fotografica Terra di Bergamo, suddivisa in tre volumi. Da allora sarebbero seguiti oltre cento volumi e numerose mostre, ma Merisio ha sempre considerata quella trilogia come il suo capolavoro. Merisio si rende conto di come il mondo rurale, al quale si sente profondamente vicino, stia scomparendo rapidamente. Si incarica allora di documentarlo e consegnarlo ai posteri. Il suo sguardo profondamente empatico verso il soggetto, restituisce la fatica, la dignità e la sacralità di una vita dura, ma soprattutto il senso del sacro che la governa.

È lo stesso sguardo che poi Merisio ha allargato all'Italia intera, al suo paesaggio, alla sua storia, alle sue trasformazioni e contraddizioni. E con questo sguardo profondamente etico fotografa il maglio e l’altoforno, il petrolchimico e la fienagione, il gioco dei bambini e il lavoro minorile, la tonnara e la Fiat, le ballerine alla Scala e il carnevale povero a Venezia, l’osteria padana e il caffè borghese, la Torre del Mangia e il Pirellone.

Questa fotografia dove tutto è corpo trova il suo naturale compimento quando pone nell’obiettivo l’esperienza del sacro, mostrato spesso e soprattutto (e può apparire naturale per chi è nato accanto a un grande santuario) nel suo essere movimento a piedi: pellegrinaggio, processione, corteo funebre. Un'esperienza del sacro premoderna, ancora saldata alla fisicità del viaggio, oggi invece sempre più depurato dalla fatica. Da qui muove la comprensività dello sguardo di Merisio. Uno sguardo che è prima di tutto d’amore. Non c’è stata fotografia di Merisio che non fosse sacra.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: