mercoledì 29 aprile 2020
Aveva 80 anni, è morto a causa del Coronavirus. Molto attivo anche negli Stati Uniti, alla fine degli anni '60 fondò a Torino il movimento dell'arte povera.
Germano Celant

Germano Celant - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Germano Celant, il critico d’arte italiano che più ha segnato le vicende della nostra arte contemporanea assieme al “gemello” Achille Bonito Oliva, è stato vittima illustre del virus Covid–19 che sta falcidiando la popolazione tra le fasce d’età più anziane: aveva infatti compiuto ottant’anni. Era ricoverato da varie settimane all’ospedale San Raffaele di Milano e pare avesse manifestato i segni del contagio di ritorno dall’America, dove aveva visitato la mostra d’arte contemporanea dell’Armory Show.

Celant aveva tenuto a battesimo nel 1967 la prima mostra di gruppo degli artisti che riunì sotto il nome “Arte Povera” all’insegna dell’idea di «nuova dimensione progettuale che mira ad intendere lo spazio dell’immagine, non più come contenitore ma come campo di forze spazio–visuali» (Boetti, Kounellis, Fabro, Paolini, Pascali e Prini, quindi Penone, Mario e Marisa Merz, Calzolari, Anselmo, Pistoletto, Zorio). La mostra si tenne alla Galleria La Bertesca di Genova, città dove Celant era nato nel 1940, e a mettere il sigillo ufficiale a quella nascita fu la collettiva Conceptual Art, Arte Povera, Land Art del 1970 alla Galleria Civica di Torino.

Celant fu un interprete del clima sessantottardo critico verso la società dei consumi e le gerarchie sociali ed economiche, ovvero contro le visioni e i costumi neoborghesi, che sfociò nella radicalizzazione della lotta politica e violenta per strada. Non a caso il titolo del saggio che scrisse due mesi dopo la prima mostra dell’Arte Povera nella forma stessa di manifesto per il gruppo s’intitola Appunti per una guerriglia dove espone il programma “politico” incentrato “l’uomo reale” di Marx: «Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso di essere libero. Creato un oggetto, vi si accompagna. Il sistema ordina così. L’aspettativa non può essere frustrata, acquisita una parte, l’uomo, sino alla morte, deve continuare a recitare. Ogni suo gesto deve essere assolutamente coerente con il suo atteggiamento passato e deve anticipare il futuro. Uscire dal sistema vuol dire rivoluzione... L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto».

Ma se il nuovo movimento si propone la lotta al sistema a cominciare dall’uso artistico di materie e materiali umili, cioè più vicini alla terra, alla natura, e in definitiva a un ritorno alle origini dell’uomo, ciò – considerata l’evoluzione storica di quelle premesse nel successo mondiale che gli artisti di Celant ottengono contrastando in parte il predominio dell’arte americana – non deve tuttavia far pensare che siano artisti francescani quelli che ne fanno parte, se non perché è di moda definire francescana l’analogia fra l’arte di Alberto Burri – di cui Celant ha curato mostre e cataloghi – e la sua scelta di materie comuni e dal significato simbolico, come la iuta per esempio. Saranno anche poveristi gli esponenti dell’arte promossa e teorizzata da Celant nel 1967, ma la loro ideologia si è col tempo piegata ai diktat del mercato, al denaro e al sistema che dovevano criticare.

Quando Celant prefigurava quella rivoluzione legandola al termine “guerriglia” era un giovane critico di estrazione sociale modesta e il suo linguaggio teneva conto di un vocabolario di lotta che stava permeando anche il mondo dell’arte: nel 1979 due storici dell’arte, Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, firmarono una voce per la Storia dell’arte italiana edita dalla Einaudi dove parlavano della “guerriglia anticlassica” della periferia contro l’arte del centro, quella che Testori aveva definito parlando dei grandi nomi del Rinascimento l’arte degli “Uomini d’oro”. Era l’assunzione di un pensiero assimilato dal maestro, Roberto Longhi, che aveva insegnato ai suoi allievi a diffidare del centro e a coltivare le periferie dell’arte. Nel ritratto che Francesco Arcangeli ci ha lasciato di Longhi, di cui seguiva le lezioni, egli ha un’aria quasi ieratica: «In fondo all’aula, gremitissima, Longhi, alto, tutto nero, leggeva i suoi mirabili Momenti della pittura bolognese». Chi ha avuto modo di vedere Celant nelle occasioni pubbliche sa che quella di Longhi era anche la sua divisa d’ordinanza, poi adottata da tutti i discepoli di oggi: vestito sempre di nero, t–shirt a maniche corte, giacca e calzoni di pelle nera, chioma brizzolata e cotonata, eloquio da guru internazionalista. Un’immagine solo apparentemente austera, perché in realtà è l’abito che dovrebbe fare il monaco, in questo caso il grande sacerdote.

La prima confutazione sta proprio nella vicenda di mercato che si è creata da decenni a questa parte attorno all’Arte Povera facendone lievitare i prezzi fino a vette stratosferiche che certo non sono alla portata di persone comuni ma soltanto di musei e magnati come Pinault. Tutto il contrario di quella democratizzazione dell’arte che teorizzava Duchamp con i suoi oggetti “senza significato” e presi dalla realtà più ordinaria. Eppure «Arte Povera – scrisse Celant – è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine».
Celant è stato soprattutto negli anni recenti una sorta di icona della presunta capacità dell’arte italiana di competere sulla scena internazionale; curatore delle maggiori istituzioni museali e candidato per tutte le occasioni ufficiali: per l’Expo nel 2015 gli venne affidata la cura della mostra Art & Food alla Triennale, e ancora prima, nel 2011, nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, organizzò un tour in sette città italiane per celebrare la sua creatura, l’Arte Povera, come unico movimento dell’arte italiana del dopoguerra di livello internazionale.

Nel 1988 Celant aveva precisato il tiro coniando il termine “inespressionismo”, ultimo passo verso un’arte ridotta a concetto e a semantica primaria delle materie povere. Il n’importe quoi di Duchamp, che egli opponeva quando gli chiedevano che cosa volessero dire i suoi ready made, “nulla” appunto, rende l’immanenza della cosa, dell’oggetto, della materia prima la metaforica negazione di ogni intenzionalità. Così le opere dell’Arte Povera non devono spiegarsi per i loro valori simbolici perché di fatto questi sono condensati interamente nell’atto di esposizione, senza sovrastrutture culturali, a cominciare da quelle della mercificazione. Purtroppo non è andata così, al di là delle migliori intenzioni. E il collezionismo museale e d’alto bordo fa dell’Arte Povera un’arte borghese.

Dopo il Guggenheim di New York, dove nel 1994 allestì la grande esposizione Italian Metamorphosis 1943–1968, Palazzo Grassi nell’89 con la mostra sull’arte italiana del Novecento (dove rivalutò la pittura e la scultura della prima metà del secolo); la Fondazione Vedova; la Biennale Arte e Moda a Firenze e la grande retrospettiva su Arte e Architettura a Genova nel 1996; la Biennale di Venezia del 1997 intitolata Futuro, Presente, Passato, Celant era diventato anche il direttore artistico della Fondazione Prada. Niente di povero, verrebbe da dire.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: