mercoledì 4 novembre 2015
Credente e attento interprete del Mistero della Passione, ha impressionato con le sue opere di antropologia filosofica i lettori del mondo intero. (di Daniele Zappalà)
COMMENTA E CONDIVIDI
«I Demoni di Dostoevskij. Poi, Alla ricerca del tempo perduto di Proust». Fu una risposta senza esitazioni, ma tanto più indimenticabile per la dolcezza di voce e di sguardo con cui René Girard la pronunciò, nel suo piccolo appartamento parigino a due passi dalla Tour Eiffel, davanti a un cronista che ci mise un bel po’ a decifrare come fosse possibile che un simile monumento delle scienze umane occidentali, al termine di un’intervista, potesse rispondere con tanta naturalezza a una domanda che avrebbe fatto ridere o al contrario indisposto tanti altri: «Perdoni la facezia. Ma quali romanzi porterebbe assolutamente su un’isola deserta?». Dietro al grande studioso c’era un uomo di una rara generosità intellettuale, spesso testimoniata da quanti negli anni hanno potuto incontrare o “sentire” Girard. C’erano ancora imprevisti picchi, molto discreti, dietro il massiccio della fama accademica dell’antropologo scopritore della teoria del desiderio mimetico e del capro espiatorio, appena scomparso a 91 anni, dopo una lunga malattia. Come intuivano i più stretti collaboratori di una vita, questi intimi picchi abitavano l’uomo in simbiosi con la fede di Girard, nato nel giorno di Natale del 1923 ad Avignone, la città del Palazzo dei papi. Con Menzogna romantica e verità romanzesca, uscito nel 1961 e da allora ristampato di continuo in tutto il mondo (per Bompiani in Italia), partì proprio dall’analisi dei più grandi romanzi occidentali la cavalcata di Girard in una nuova prateria vergine dell’antropologia filosofica, riassunta forse da una celebre massima del libro: «L’uomo desidera sempre secondo il desiderio dell’Altro». Dalle iniziali letture girardiane dei capolavori di Stendhal, Cervantes, Flaubert, Proust e Dostoevskij, quella teoria si è poi diffusa come una sorta di bing bang teorico nei campi più svariati delle scienze umane, come mostra oggi l’estrema varietà dei temi toccati dai convegni dell’Arm, l’Associazione delle ricerche mimetiche, voluta in Francia dagli allievi e amici di Girard per offrire un pur minimo coordinamento, una sorta di mappatura, al rizoma intellettuale propagatosi lungo i decenni dalla grande intuizione di Girard. «La sua eredità culturale sarà assicurata da tanti e vorrei dire in questo momento che non c’è nessun cenacolo girardiano, perché René ha saputo parlare fin da subito a un vasto pubblico sulle due sponde dell’Atlantico, conservando fino all’ultimo questo gusto dell’apertura», ci dice Benoît Chantre, fra i più stretti amici e presidente dell’Arm, con voce paralizzata dal dolore. Nel 2007, proprio Chantre aveva dialogato con Girard nell’ultima grande opera del pensatore, ancora straordinariamente magmatica e avvolgente, uscita in Italia con il titolo Portando Clausewitz all’estremo (Adelphi). I critici più attenti l’hanno subito interpretata come un monito dal sapore profetico, puntato sulle enormi capacità d’autodistruzione del genere umano: una sorta di attualizzazione, in chiave filosofica e per i lettori del XXI secolo, del ritratto del nichilismo umano contenuto a livello letterario proprio nei Demoni di Dostoevskij, l’opera preferita da Girard: «Siamo la prima società a sapere che può autodistruggersi in modo assoluto. Ma ci manca la credenza che potrebbe sostenere questo sapere». Lungo la densa parabola intellettuale girardiana, dal primo fino a quest’ultimo capolavoro, sono tante le opere che hanno impressionato i lettori di tutto il mondo. Volumi scritti quasi tutti negli Stati Uniti, in quella Stanford dove Girard ha condotto quasi tutta la sua carriera accademica. E dove gli studenti del campus della celebre università avevano imparato a incrociare Girard pure la domenica, lungo il percorso verso la Messa. In Italia, dove il pensiero girardiano è stato accolto con grande favore anche da contrade intellettuali ideologicamente opposte, è uscito nel 1980, per Adelphi, La violenza e il sacro, prima de Il capro espiatorio (1987, Adelphi). «L’amore, come la violenza, abolisce le differenze», aveva scritto in una delle tante opere con cui aveva precisato nel tempo il suo pensiero, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983, Adelphi). E di amore ha sempre molto trattato tutta l’opera girardiana, concentrata in proposito pure sul senso profondo, innestato nella stessa natura umana, della Passione di Cristo: per Girard, il Sacrificio che si è offerto come modello, ribaltamento e possibile via d’uscita rispetto alla strada antica, antropologicamente radicata, degli olocausti rituali per placare l’aggressività sociale connessa alle intime trappole del desiderio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: