lunedì 14 dicembre 2020
Scomparsa domenica a 95 anni, è stata la responsabile dello storico restauro del Cenacolo, un’impresa durata 22 anni dal 1977 al 1999. Un vero a corpo a corpo con un capolavoro e il suo fantasma
Pinin Brambilla Barcilon nel 2015 in Santa Maria delle Grazie a Milano

Pinin Brambilla Barcilon nel 2015 in Santa Maria delle Grazie a Milano - Fotogramma

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«È stata un’esperienza dura: psicologicamente e fisicamente. È stato un privilegio vincolato a una disciplina ferrea, severa. Ho lavorato sulla superficie per ritrovare la materia originale, scaglia per scaglia, frammento per frammento. Per ventidue anni». Così Pinin Brambilla Barcilon raccontava il suo restauro al Cenacolo di Leonardo, nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Un vero proprio lunghissimo, estenuante corpo a corpo. Quando lo iniziò nel 1977 aveva 52 anni. Quando ne uscì vincitrice nel 1999, ne aveva 74. Certo dovette essere d’aiuto la fibra forte: Pinin Brambilla è scomparsa ieri all’età di 95 anni.

Da molti punti di vista, Pinin Brambilla Barcilon è stata per il grande pubblico sinonimo di restauro. Il suo è forse l’unico nome conosciuto tra i molti che ogni giorno fanno dell’Italia una (per una volta autentica) eccellenza italiana nel mondo. La lunghezza, la difficoltà, la straordinarietà dell’intervento, hanno fatto sì che col Cenacolo – probabilmente il dipinto più famoso e senza dubbio il più riprodotto, citato e parafrasato al mondo – il restauro sia entrato per la prima volta nel dibattito pubblico. Gli altri casi mediatici, a partire dalla Sistina, sono venuti dopo. Eppure, raccontava, «il restauro resta difficile da comprendere per un pubblico poco preparato, e ancora di più da giudicare, tanto per le questioni scientifiche ma anche perché è complesso capirne le ragioni e le differenze di opinioni».

Quando sale sui ponteggi per cercare di ridare visibilità a quanto di autentico restava di un capolavoro già ridotto a fantasma di se stesso pochi anni dopo essere stato terminato, Pinin Brambilla aveva ovviamente una lunga esperienza alla spalle: sempre per restare in tema di capolavori assoluti, basti pensare alla Pala di Brera, di Piero della Francesca. Ma nel corso di una carriera lunghissima quasi non si contano i cantieri, grandi e piccoli: dal Giotto degli Scrovegni agli affreschi di Masolino da Panicale nel battistero di Castiglione Olona, dagli affreschi altomedievali diOleggio a quelli quattrocenteschi di Palazzo Borromeo a Milano. E poi le opere di Filippino Lippi, Crivelli, Mantegna, Lorenzo Lotto, Gentile Bellini, Bronzino, Caravaggio, Tiziano, Tiepolo... Sperimentatrice e innovatrice sotto il profilo delle metodologie e delle tecniche di conservazione e restauro, aveva collaborato con musei come il Louvre di Parigi e tenuto corsi a New York, Washington, Chicago, Londra, Nuova Delhi, Sidney, Tokyo. Nel 2005 aveva fondato, per poi anche dirigere, il Centro per la Conservazione e il Restauro "La Venaria Reale", polo di formazione e ricerca nel settore dei beni culturali. Eppure Pinin Brambilla Barcilon era e resterà per sempre la dama di Leonardo, al quale dedicò ininterrottamente (stop forzosi a parte, dovuti a intoppi burocratici ed economici, risolti grazie a fondi elargiti dalla Olivetti, che in tuttò verso 7 miliardi di lire) un quarto di una vita lunga quasi un secolo.

In occasione dei suoi 90 anni, nel 2015, si era concessa il regalo di raccontare l’impresa in un libro, pubblicato da Electa, La mia vita con Leonardo. È il ritratto di una scoperta continua. Il dipinto appariva «un ammasso di grumi – raccontava con voce squillante –, disseminato di piccole zone chiare là dove era caduta la superficie dipinta. Visto da lontano il complesso "stava in piedi", ma a pochi centimetri di distanza la materia pittorica risultava pasticciata, infelice». Sotto il suo bisturi «gli apostoli cambiavano fisionomia. Matteo, per esempio. L’abbiamo trovato senza barba, giovane, con i capelli ricci e biondi. E con ancora un frammento del magnifico mantello blu, lavorato da Leonardo a doppia stesura con lapislazzuli e azzurrite. Rispetto agli abiti, i visi e le mani hanno resistito meglio al tempo. Leonardo realizzava gli incarnati con sei o sette strati di colore, mentre nelle altri parti non erano più di due». Il tutto sempre sotto gli occhi dei visitatori (anche in questo il Cenacolo è un punto di non ritorno), e all’epoca non c’era neppure l’ingresso contingentato.

Anche dopo il 1999, da quei ponteggi Pinin Brambilla non è mai scesa. Non poteva essere diversamente. «Il nostro è un lavoro di grande fascino – diceva – Si entra nello spirito dell’opera, si capisce come il pittore ragiona, i suoi mezzi tecnici, la poesia. È una cosa che rimane dentro. Il restauratore deve operare con le mani, e poi ci sono la mente e il cuore».

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