domenica 12 settembre 2010
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L'avevano dato per spacciato già nel primo scorcio del Novecento, quando il calore umano della voce ricevuta da un telefono aveva sostituito il ticchettio metallico del telegrafo e le sue lunghe strisce di carta. Era stato considerato a un passo dalla fine delle trasmissioni anche nel 1932, anno in cui il Post Office britannico aveva sentenziato: il codice Morse è stato ufficialmente abbandonato (benché, poi, negli Stati Uniti e in Australia abbia resistito fino agli anni Sessanta). Era stato intonato di nuovo il de profundis nel 2005, non appena l’Unione internazionale telecomunicazioni (Itu) aveva abbattuto l’ultimo baluardo che sembrava lo tenesse in vita: non era più necessario conoscere la lingua dei pionieri della comunicazione per ottenere il patentino da radioamatore. E, invece, nell’era delle email, degli smartphone e di twitter, è ancora vivo e vegeto l’alfabeto composto da punti e linee che porta il nome dell’inventore del telegrafo, il pittore statunitense Samuel Morse. Un codice binario ideato nella prima metà dell’Ottocento che per un certo verso ha anticipato il bit, l’anima a due cifre (lo zero e l’uno) dei computer e di internet, e che per decenni ha unito via cavo o per etere villaggi e continenti, ha fatto arrivare telegrammi e dispacci d’agenzia nelle redazioni dei giornali, ha guidato sui mari le navi e purtroppo ne ha annunciato le tragedie (come quei tre punti, tre linee e ancora tre punti del sos lanciato nel 1912 dal Titanic che affondava, incappato in un iceberg). Di fatto un precursore del «villaggio globale» teorizzato da Marshall McLuhan, che oggi continua a essere un gergo mediatico nonostante l’età pensionabile. Ne sono i custodi gli oltre due milioni di radioamatori sparsi per il mondo, che con antenne istallate sul tetto di casa e trasmettitori impiantati in cantina o nel soggiorno si collegano attraverso quelle onde trasformate dal bolognese Guglielmo Marconi in un nastro trasportatore di segnali elettrici. «Il Morse – spiega il presidente dell’Unione internazionale radioamatori, il canadese Timothy Ellam – resta un metodo molto popolare fra gli hobbisti. Anche se non è più un requisito previsto dai regolamenti mondiali, è ancora studiato». Come a dire: non si tratta di semplice sopravvivenza. Del resto il codice dei telegrafi è, ad esempio, la lingua delle emergenze. «Lo sa bene chi ha ascoltato in cuffia, lo scorso gennaio, le comunicazioni sul terremoto di Haiti», rivela Marcello Vella, 52 anni, funzionario del Comune di Palermo e, nel tempo libero, presidente dell’European Radioamateurs Association (Era) che in Italia conta 450 soci pronti a intervenire nei radiocollegamenti di protezione civile. E le ragioni di questo ritorno al passato, quando si è con l’acqua alla gola, non sono sentimentali. «Il Morse permette di inviare o ricevere messaggi in condizioni di banda limitata – racconta Dennis Franklin, 65 anni, di Fremont in California –. Non solo. Quando il rumore di fondo è elevato ed è complicato comprendere una voce trasmessa via radio, il Morse consente di dialogare. Per di più non esistono accenti o dialetti che sono tipici della lingua umana». Franklin è uno dei diecimila membri dell’International Morse Preservation Society, il sodalizio fondato nel 1987 dall’inglese Geo Longden per salvaguardare l’alfabeto massmediale delle origini. Una rete di amici diffusa in tutto il mondo che considera il vecchio codice «quasi una forma d’arte» e che chiama «nostri eroi» Morse e Marconi. Una loro icona è il pugno aperto: perché questa è la forma che assume la mano quando batte sul tasto in legno con cui si trasmettono gli impulsi. Certo, gli allarmi a suon di punti e linee non sono affidati soltanto all’etere. Il Morse viene ancora insegnato nei corsi di primo intervento o nelle università (anche italiane): basta scorrere il piano di studi di un «master in soccorso avanzato nelle emergenza extraospedaliere» per imbattersi nella lingua del telegrafo come uno dei sistemi apprendere. Comunque, se si è in pericolo, un messaggio che segue la storica tavola può essere inviato con le bandierine, con una luce a intermittenza, con uno specchio che riflette il sole, con un fischietto. E persino con un martelletto. Come avevano fatto nell’estate del 2000 i marinai del sommergibile atomico russo «Kursk» affondato nel mare di Barents: non potendo ricorrere alla radio, il 10 agosto colpirono con un battente lo scafo metallico e grazie al Morse trasmisero all’esterno le loro richieste di aiuto. A dimostrazione di come l’idioma creato dal pittore-inventore sia versatile e consenta comunicazioni essenziali in situazioni estreme. «Nelle radio emergenze – aggiunge Vella – il vecchio codice è, per le sue caratteristiche, il modo più sicuro di inviare notizie a grandi distanze anche se non si conosce la lingua del corrispondente». Già, perché il Morse va a braccetto con abbreviazioni internazionali che rappresentano una sorta di "inglese" universale ante litteram in grado di essere compreso in ogni angolo del pianeta. È il caso del codice Q, che in tre lettere (la prima è sempre la Q) condensa frasi standard. Così, quando si vuol chiedere «qual è il tuo nome?», è sufficiente digitare QRA?; oppure, se si vuol far sapere che «ho ricevuto» un testo, va scritto QSL. «Non mancano, poi, altre sigle molto apprezzate – precisa Dennis Franklin – Il 73 sta per "auguri" e CUL per "ci vediamo più tardi". È in questo modo che contatto un amico italiano nonostante non sappia la vostra lingua». E che il Morse non sia soltanto un pezzo di antiquariato è provato dall’aggiornamento della sua mappa dei caratteri. A distanza di quasi due secoli dalla nascita, è entrata nell’alfabeto a ticchettio la chiocciola, elemento chiave per la posta elettronica. La revisione è stata decisa qualche anno fa dall’Itu per colmare il gap creato dalle nuove tecnologie, ricorrendo alla sequenza delle lettere A e C senza spazi intermedi che descrivono la @. Una scelta che sembra richiamare l’operazione del Lexicon recentis latinitatis, il dizionario pubblicato dalla Libreria editrice vaticana che attualizza la lingua di Cicerone. Di fatto, un po’ come la Chiesa mantiene vivo il latino, così i marconisti di oggi hanno adottato il codice dei loro padri come linguaggio privilegiato. E nel Lexicon il telegrafista è definito uno «scriba telegraphicus».
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