venerdì 13 giugno 2014
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L’impressione è confermata da una rapida indagine su internet: poco o niente si è fatto quest’anno per celebrare il cinquantesimo della morte di Giorgio Morandi (che cadrà il prossimo 18 giugno). Il fatto è degno di nota, e anche fonte di pensieri malinconici come certi crepuscolarismi accuratamente evitati dal pittore bolognese che alla luce ha consegnato il senso della sua pittura.«Siamo spiacenti, ma al momento non abbiamo mostre in corso»: se fosse di un qualunque piccolo Museo periferico del Belpaese, l’avviso non stupirebbe affatto. Che sia, invece, del Museo Morandi di Bologna lascia di stucco. Ma come? Un museo che custodisce l’opera del più illustre pittore bolognese del Novecento non ha in programma niente che contribuisca non solo a celebrarlo, ma a dare nuovo impulso a una indagine critica che, per la verità, è ferma ancora molto alle analisi di Longhi e di Brandi. In compenso fra qualche settimana si chiude nel Museo una mostra sulla Wunderkammer e la luce, tema di moda oggi, ma molto artefatto (nonostante il ricordo di Adalgisa Lugli). Ci sarebbe, domenica, un trekking tra i calanchi, a Grizzana, dove Morandi soggiornò a lungo e che in omaggio a lui dal 1985 si chiama Grizzana Morandi: una passeggiata «dentro il paesaggio di Giorgio Morandi», ma, ahinoi, poveri noi, le piogge annunciate dal dio Meteo per domenica hanno convinto subito gli organizzatori a stampare nel sito ufficiale del Museo Morandi che l’iniziativa è «sospesa per maltempo». C’è da dire, a proposito delle date, che di quella ufficiale proprio se ne infischiano anche a Grizzana, che pure s’ammanta dell’illustre nome da un trentennio, le varie iniziative per celebrare l’anniversario infatti vengono inaugurate l’11 luglio con due mostre “a margine”, una di Omar Galliani e una sulla Casa Morandi con le foto di Luciano Leonotti.Due settimane fa, invece, ha inaugurato a Firenze, a Villa Il Tasso, ovvero alla Fondazione Roberto Longhi, una piccola mostra di 18 opere fra dipinti, acquerelli e incisioni, costruita sulle opere della stessa Fondazione e della Collezione Merlini; è il pretesto per ricordare un sodalizio intellettuale e umano dove Morandi esce come un gigante nel giudizio di un altro calibro da novanta del Novecento, che profetizza per il pittore un primato di lunga durata che non lo vedrà «secondo a nessuno» (nel catalogo curato da Maria Cristina Bandera ed edito da Silvana, si troveranno oltre all’antologia critica longhiana anche il carteggio che si dipana dal 1938 al 1964). Ma quella di Longhi, considerando il disinteresse istituzionale che si registra in questo anniversario, sembra quasi una profezia azzardata, o quanto meno poco gradita alle nostre istituzioni. Naturalmente, tutto il mio stupore è finto. Non c’è da credere che oggi Morandi sia un pittore amato dal grande pubblico, la sua resta un’arte difficile (direbbe Pound, che forse l’avrebbe guardato con distratta indifferenza), un pittore per raffinati e intellettuali, di un altro tempo, un inattuale, se vogliamo, laddove la categoria metafisica dell’essere «senza tempo» è invece un abuso fuorviante che spesso viene impiegato per togliere a Morandi anche il pur minimo sospetto di essere parte di un figurativo che, oggi come oggi, sembra resistere soltanto nelle boutade “pubblicitarie” di furbi comunicatori che spacciano per arte ciò che è soltanto ricerca dell’effetto spettacolare.Longhi nel 1945, per la mostra alla Galleria “Il fiore”, componeva la genealogia morandiana, senza sbagliare – nel senso che aveva fatto, nella sua memoria, tesoro delle conversazioni col pittore e, sulla base di queste, dettava le concordanze o le affinità “ideali” più che stilistiche –: Giotto, Masaccio, Piero, Bellini, Tiziano, Chardin, Corot, Renoir, Cézanne. Sottolineava, Longhi, che dal discorso morandiano mancassero Van Gogh, Gauguin, Modigliani. E per quanto riguardava gli antichi, notava che Morandi aveva in odio qualsiasi «sospetto di eloquenza, di turgidezza, di agitazione, di retorica, della violenza fisica, della forza, del titanico, del capanneico e simili». Vabbè, poco dopo faceva capolino Proust; ci sta, la luce che imperla le cose, le «ricordande tonali», col «soggetto che gira al minimo», il senso quasi reliquiale della pittura come memoria del tempo. Come dire? la forma-colore nel più distillato minimalismo iconografico (bottiglie, che cosa è più silente dell’oggetto inanimato? solo la morte, ma qui si cade nella contraddizione del tempo che nella sua impalpabile sostanza divora la carne umana ricordandoci che c’è un inizio e una fine, siamo meridiane che trattengono sul loro corpo il passare dei giorni).Eppure, questo “astrattismo” derivato dalla realtà, e non a prescindere da essa, che si coniuga coi lacerti estetici di un impressionismo che non è più stile ma sostanza di un’epoca, «tanto che, sullo stesso pretesto materiale, egli ha potuto rendere timbri sentimentali diversi e sempre diversamente inclinare la sua elegia luminosa», è una filiazione di quella verità – ancora caravaggesca, in quanto metafisica della realtà – che poi porta Longhi a dire che le generazioni recenti della pittura si dispongono «a cadere nel cesto di cenci colorati». Come sempre, più che severo, Longhi sapeva con una battuta essere perfido quant’altri mai nel mettere alle corde l’avversario, e all’epoca il conflitto fra astratti e realisti era soltanto alle prime battute. Nel 1964, alla morte dell’amico pittore, Longhi firma un “Exit Morandi”, dove ribadisce la sintesi di una ricerca come «elegia luminosa», ovvero «una così poetica ricognizione nel mondo di natura da non trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare».Ecco che, pensandoci, quella genealogia longhiana ha in Piero il suo vero centro, il nome più affine, sia pure in un orizzonte «post metafisico» proprio del Novecento. Quando Longhi ricorda il sospetto di Morandi verso l’arte eloquente, pare di ascoltare Berenson su Piero della Francesca e la sua arte «inespressiva, ineloquente, muta, “esistenziale”»: nella non eloquenza, l’estrema, radicale tensione del silenzio genera l’«energia vitale che si manifesta nell’azione di polsi e caviglie».Ma, sia chiaro, nel Novecento nessun pittore, più di Morandi, è metafisico ed esistenziale al tempo stesso, fino allo svuotamento dell’oggetto e alla sua transustanziazione in essenziale pittorico, in forma-colore (che, si ricorderà, era la diade concettuale che Longhi applicò alla “novità” di Piero); si può discutere se sia un vertice assoluto del Novecento, oppure se questa sua inattualità oggi non costituisca una spia di qualcosa che dura al di là delle epoche e della epidermide storica. Certo – e qui credo ci sia molto su cui riflettere –, la celebre e lacerante diatriba con Francesco Arcangeli, dove il critico bolognese rilevava sintomi d’incertezza nel tremolio dei contorni che definivano gli oggetti silenti dipinti da Morandi, potrebbe essere oggi un punto da cui ripartire per ridare a questa pittura una carne che l’artista stesso, forse, sentiva come “perturbante”. Declinata come catarismo pittorico, la gnosi della luce finiva per coprire l’umano, che lascia sulle cose le tracce del proprio esistere, la propria bava di lumaca che sottrae la pittura al vuoto iperbarico di un sentire tutto consegnato a un ascetico spirituale pittorico.C’è molto ancora da scrivere su questa tentazione di Morandi, ma se vogliamo fermarci all’attivismo smodato con cui si sta celebrando l’anniversario, vien da pensare che anche quelli che ne custodiscono le memorie lo considerino una specie di oggetto silente, o lontanissimo da noi.Firenze, Fondazione LonghiMorandi-LonghiOpere Lettere ScrittiFino al 22 giugno
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