sabato 12 luglio 2014
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​Incontrai nel 1970, a Roma, Gino Montesanto. Gli avevo mandato in lettura un mio romanzo inedito e aspettavo il suo verdetto. Di lui intanto avevo letto La Cupola. Un libro legnoso, privo di quegli scarti di lirismo che ritrovavo nei descrittori neorealistici della vita di provincia ed eccessivamente allusivo. Di un realismo geometrico e plumbeo. Io gli avevo presentato invece un malloppo che si dibatteva tra l’esperienza antropologica di Ernesto De Martino e la sulfureità fantasiosa di Bulgakov. Montesanto si presentò in maglione scuro e girocollo, era un bell’uomo, un mezzo sorriso sulle labbra e l’aria sfottente, di chi sta lì pronto per dire: «Ora ti aggiusto io». Mi suggerì di tagliare moltissimo e ricavare appena un racconto dal romanzo. Un disastro. Una metodologia didattica tendente a scoraggiare. Tornando, in treno, rileggevo La Cupola e seguivo il rapporto che Montesanto tesseva con Dostoevskij e con la Chiesa dei Padri. Miskin è Cristo riapparso nella società aristocratica e altoborghese della Russia di fine Ottocento. Miskin si comporta come si comporterebbe il Cristo del Vangelo e scandalosamente appare un idiota. La struttura narrativa di carattere teatrale tornava in ogni opera di Montesanto. La folla di personaggi che appaiono e scompaiono all’interno de La Cupola si porta in bocca spezzoni di dialoghi che hanno avuto inizio fuori di scena. Attraversano la scena, ci danno un’idea vaga di argomenti che paiono inessenziali alla trama ma che sono essenziali a dipanare l’assunto concettuale del libro.  Montesanto sembra dire che la quotidianità è fatta di chiacchiera e che gli spazi per le battute essenziali sono molto molto limitati. Marco Baldoni è un uomo di provincia. Non digiuno di studi ma digiuno di esperienze metropolitane. La sua inadeguatezza di fronte ai comportamenti urbani e poi di fronte a quelli curiali e politici tende a porre un contrasto tra provincia e centro, tra la schiettezza, la semplicità e il carattere naif e verginale della provincia e la sulfureità, le furberie, il bon ton, la doppiezza della città. E soprattutto di Roma, dominata dalla politica e dalla Chiesa e dalle sottosegreterie, da una zona d’ombra che non è vertice e non è base dove si perdono le alte finalità politiche e si coltivano le piccole ragioni, si vive di compromessi e di logiche affaristiche.  Snidato il fallimento dei sogni della Resistenza, Montesanto analizza la seconda Resistenza ai tempi della Democrazia Cristiana, il ’68, l’avvento del Pci. Un gattopardismo continuo i cui esiti li troviamo ne Il figlio per la parte laica e in Così non sia per la parte religiosa. Un gattopardismo che si ripeterà con la terza resistenza, quella di Tangentopoli, e che verrà analizzata in Sottovento.  È complicato entrare nel labirinto e non sporcarsi le mani e i piedi. Entrare e riuscire a mutare il contesto. Perché è il contesto che riesce a mutare l’interiorità degli individui. Montesanto non crea ribelli, ma insinua il desiderio della ribellione. Montesanto non grida e non fa proclami, ma usa l’arma sottile della persuasione, secondo una regola che va dal più antico esistenzialismo a Michaelstedter. Parte di queste teorie il narratore di Cesenatico le mette in bocca a Mirco, ne Il figlio, per costruire un personaggio alternativo e l’icona di tanta gioventù che abbiamo conosciuto negli anni ribelli e che è stata l’antesignana di quella cittadinanza attiva di cui ha parlato la sinistra. Tuttavia non è mutato il nucleo di valenza etica che lo ha sempre accompagnato. Sono ulteriori manifesti di questo sentimento e della roccia morale a cui Montesanto è aggrappato. Più che i temi, le motivazioni che hanno portato alla nascita di quei libri sono molte. L’integrità morale con i suoi cedimenti al carrierismo, la televisione dell’informazione e della non formazione, la modernità che chiede le sue vittime e un costante adeguamento della nostra forza di restare illibati allo sconquasso morale, le nostre sconfitte progressive di fronte alla stupidità fatta modello di vita e l’esaltazione del denaro, del successo e del potere come unici ticket per il paradiso del futuro. Insomma la distruzione di qualunque statuto di valori che si contrapponga alla merce, alla fatuità e al denaro.  L’assenza di esempi. La modernità che ha stravolto tutto. La cupola è diventata piovra e ha raggiunto con i tentacoli anche la periferia, la provincia. Resta solo la possibilità di guardarsi dentro e cercare l’impronta di Dio, la voglia di aggirarsi tra periferie e campagne, alla ricerca di orme lasciate nei semplici dal Creatore. In Sottovento, un romanzo che Montesanto pubblicò dopo dieci anni di silenzio narrativo, forse il suo canto del cigno, agiva un uomo della provincia romagnola, Guidobaldo Ercolani. Ancora una volta una esemplarità edificante in senso negativo, un «così non sia» applicato questa volta alla società laica. Perché il teorema a cui Montesanto intende rispondere è: per quale ragione nella nostra società i giovani si rifugiano nella droga e gli adulti cadono in depressione e rinunciano a vivere? La risposta sembra stare in questi termini: perché non c’è più fuoco che ci incendi, non un qualche legame a un Fondamento capace di trascendere la nostra cieca quotidianità e soprattutto perché i grandi sentimenti sono tramontati e ci si accontenta di vivere una vita sottotono, mediocre, non autentica. Guidobaldo è un uomo senza slanci e senza progetti. Agisce d’impulso ma non si piega a un progetto che riscatti la sua esistenza. I suoi ideali sono di moda ed è questo vivere nel solco dei consumi, nel sonno della mediocrità a ingrigirlo e a perderlo definitivamente.
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