martedì 31 agosto 2010
La tutela dei luoghi di culto ortodossi sta passando gradualmente sotto il controllo della polizia locale, un ulteriore motivo di tensione tra comunità serba e albanese dopo l’indipendenza
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I soldati francesi l’hanno ribattezzato ponte «Austerlitz». Non senza ironia sottintesa verso Slobodan Milosevic, paragonato a Napoleone: un omaggio alla sua disfatta. Qui, nel cuore del Kosovo autoproclamatosi indipendente il 17 febbraio 2008 e riconosciuto come tale dalla Corte di Giustizia dell’Aja il 22 luglio scorso, il ponte sul fiume Ibar fa da spartiacque alla paura di nuovi pogrom e alle due anime della città. A Sud, quella albanese-musulmana: strada centrale, moschea con minareto, bancarelle cariche di dolci e telefoni cellulari di seconda mano. A Nord, quella serba cristiano-ortodossa: negozi rari, nemmeno un’anima in giro. Il ponte si attraversa a piedi o in auto. Ma bisogna cambiare targa. La contraddizione di una città formalmente divisa, dove i serbi di Mitrovica nord hanno appena eletto i rappresentanti di una vera amministrazione parallela che il governo di Pristina non riconosce, si riflette nella composizione della polizia locale. A metà del ponte sul fiume Ibar staziona sempre una pattuglia di polizia kosovara. Di solito sono in due: uno albanese, l’altro serbo, in servizio insieme. L’integrazione tra le etnie locali passa attraverso la ricostruzione dell’apparato di sicurezza: albanesi e serbi, fianco a fianco, con il benestare della Nato e dell’Unione Europea. Per frenare gli integralismi e il nazionalismo rinascente che oppone ancora i governi. Per allontanare la paura di una nuova pulizia etnica (la Croce Rossa Internazionale ricorda che in Jugoslavia risultano dispersi in più di 14mila), fomentata dalla diffusione di gruppi nazionalisti di matrice islamica. Solo agli inizi di luglio, una serie di incidenti di questa natura ha provocato la morte di un uomo e numerosi feriti. Motivo scatenante, il "Piano di azione per il Nord" del ministro kosovaro Bajram Rexepi per l’invio di truppe speciali della polizia kosovara a Mitrovica Nord, d’accordo con la missione della Ue, l’Eulex. Per questo, per il presidente Boris Tadic «la Serbia non riconoscerà mai il Kosovo»: e promette di inviare al più presto una delegazione a Bruxelles.La via pacifica e diplomatica è quella che tutti si augurano, anche se il premier kosovaro Hashim Thaci esclude ogni ipotesi di trattativa con la Serbia su scambi di territorio o di autonomia per il Nord del Paese. Ma, dopo gli scontri a Mitrovica tra albanesi e Kfor, lo scorso marzo, in cui i soldati francesi della forza Nato hanno disperso una folla che voleva assaltare una chiesa serba nel Sud della città, le preoccupazioni della comunità ortodossa aumentano.Rafforzate da una notizia recentissima: dal 5 agosto la Kfor ha cominciato a trasferire alla polizia kosovara la tutela del monasteri serbi del Paese. Il primo ad essere assegnato, in quanto «bene a status speciale», è il monastero di Gracanica, alla periferia di Pristina: segno della fiducia di Kfor nella capacità di protezione della polizia del Kosovo sui siti religiosi. Il ministro per il Kosovo, Goran Bogdanovic, da Belgrado, ha usato parole dure: «Inaccettabile: la nostra gente non si fida di loro». Ma le ha subito smentite. Kfor prevede a poco a poco il passaggio di tutti i monasteri alla polizia locale. L’operazione interesserà, non prima della fine di quest’anno, anche i monasteri sotto tutela delle forze armate italiane: il patriarcato di Pec e il monastero serbo-ortodosso di Visoki Decani.«Il passaggio di funzioni tra Kfor e la polizia locale è avvenuto senza avvisarci», lamenta l’arcidiacono del monastero di Decani Sava Janjic. Tuttavia, il primo monastero a passare sotto protezione è Grecanica che si trova in un’enclave serba e gli agenti kosovari incaricati della protezione del monastero dovrebbero essere d’etnia serba. «L’eparchia di Raska e Prizren non consentirà alla polizia kosovara di istituire checkpoint o fare controlli all’interno delle mura del monastero», aggiunge Janjic.Tra i religiosi la tensione è palpabile. «Attualmente, anche nell’enclave albanese, dove presidiamo 24 ore su 24 l’ingresso e le mura di cinta dei monasteri di Decani e Pec, non ci sono stati scontri – rassicura il tenente colonnello Angelo Vesto, ufficiale di pubblica informazione della base militare Kfor "Villaggio Italia", a Belo Polje –. La nostra area di responsabilità è abbastanza tranquilla: il livello di sicurezza buono». Perché dunque tutta questa preoccupazione da parte dei rappresentanti della Chiesa ortodossa? «Tra noi – spiega Vesto – e i religiosi di Decani si è creato un rapporto di correttezza e fiducia: la nostra presenza li fa sentire protetti. Tuttavia, il lavoro di addestramento e intesa con la polizia locale prosegue senza intoppi: trattiamo agenti serbi e albanesi allo stesso modo». Sul versante Ue, Silvio Bonfigli, appena nominato a capo di Eulex Justice, spiega che «la questione più delicata è l’amministrazione della giustizia, proprio a Mitrovica Nord. Il nostro primo obiettivo è identificare i giudici serbi per la composizione delle corti miste locali».L’arcidiacono di Decani Sava Janjic: «Noi, qui, facciamo tutto il possibile per favorire il dialogo tra kosovari di etnie differenti. Durante e dopo la guerra abbiamo ospitato albanesi e serbi. Ma è il ritorno di un certo nazionalismo a preoccuparci: dopo la guerra ci sono stati più albanesi uccisi da albanesi che serbi uccisi dagli albanesi. La giustizia fa acqua da tutte le parti: gli autori dei crimini gravi rimangono impuniti e nessuno chiede mai perdono. Per questo ci sentiamo più sicuri con i militari accanto». Madame Dobrilla, la portavoce del patriarcato di Pec, bene dell’umanità protetto dall’Unesco, concorda con Sava Janjic, salvo ricordare a chi va in visita allo splendido patriarcato che, per i serbi, il Kosovo rimane «Kosovo i Metohjia», cioè «Terra della Chiesa». In serbo.(ha collaborato Valentina Angela Stella)
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