mercoledì 18 giugno 2014
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Le cavalcate equine del rapper sudcoreano Psy sono diventate con il video Gangnam Style un fenomeno planetario. Apparse su you tube a metà luglio 2012, sfondato il miliardo di visualizzazioni a dicembre, hanno superato il 31 maggio scorso i due miliardi di clic. Sono in molti a chiedersi la ragione del successo di un tormentone banale dal ritmo ossessivo (la clip più vista della storia) di cui solo i coreani capiscono le parole e che ha subito centinaia di cloni e parodie in lingue e performance diverse. Dialetto trentino compreso. Il mondo che in gran parte neppure sa che Gangnam è un quartiere bene di Seul, clicca, balla e, ignaro, si diverte, chissà perché. Gli antropologi vittoriani osservando la sua danza primitiva avrebbero definito Psy un tribale. Ma oggi questa definizione non tiene più: Psy vive in un Paese che da tre anni risulta il più avanzato in termini di tecnologie. In ogni angolo delle mondo le cose cambiano velocemente, le definizioni pure. Quanto è arcaica Miley Cyrus, quando con la sua lingua a penzoloni si esibisce ancheggiando vistosamente in mosse di twerking ripetendo un gesto che richiama un tradizionale segno di saluto delle donne africane del Sudan? Lo stesso ci si può chiedere a proposito di Rihanna: il suo voluminoso fondoschiena, mandato in fibrillazione a ostentare una libertà sessuale oltre ogni limite, non può non ricordare, come un feroce contrappasso, la vecchia e crudele storia della cosiddetta Venere ottentotta, alias Sarah Baartman, schiava di etnia Khoisan dall’inconsueta morfologia anatomica importata come fenomeno da baraccone in Europa due secoli fa, considerata una bizzarria della natura, con l’anormalità delle fattezze fisiche che confermava scientificamente l’inferiorità razziale dei neri. Del resto per timore di non essere abbastanza scientifica, rispetto alle scienze esatte, certa antropologia ha generato stereotipi, cliché, equivoci e mostri.Quando i ragazzi fanatici di piercing si bucano naso e ombelico come gli indiani Nimipù d’America, si disegnano il corpo di tatuaggi come gli indios brasiliani o portano i jeans ben sotto l’elastico degli slip, come i contadini di un tempo cosa vogliono dirsi e dirci? Si tratta di moda, distorsioni mentali o esotismi di ritorno? Per l’antropologia un compito arduo. Oggi è difficile stabilire se certi rituali sono selvaggismi o primitivismi dell’altro mondo, stranezze da fuori di testa, manifestazioni di culture subalterne (ma quali sono le culture subalterne?) o non piuttosto una grande marmellata globale di usi e costumi umani. Un gran mescolone o meglio un frittatone globale per dirla con il serio divertimento di Duccio Canestrini, antropologo e giornalista docente al Campus universitario di Lucca. «Quando a Firenze un senegalese vende un souvenir etrusco fatto in Cina a un turista americano – spiega – è ovvio che l’etnologia e l’antropologia sono completamente da ripensare. I rimescolamenti ci obbligano a riformulare categorie interpretative ormai scadute di appartenenza, identità, barriere, specificità, cultura egemone o subalterna». L’antropologia oggi deve mettere il naso su nuovi terreni tra mode, pensieri, comportamenti e rituali della nostra vita, interpretare la contemporaneità, i cambiamenti, gli stili di pensiero, gli usi e i consumi e la riglobalizzazione in atto. Farsi pop, o meglio Antropop, come recita il titolo dell’ultimo saggio di Canestrini appena uscito per Bollati Boringhieri (pagine 200; 16 euro), cioè strumento per capire la contemporaneità, popolare nei riferimenti e nelle forme di espressione e soprattutto antropologia per tutti, capace di entrare nel vivo della vita quotidiana e leggere fatti, fenomeni e contaminazioni che la abitano dall’ecologia al cinema ai social network, alle tecnologie che hanno cambiato i rapporti umani, a tutti quei rituali fluidi e in continua mutazione che la tribù globale adotta spesso inconsapevolmente. Il tutto osservato con una buona dose di ironia. Una sottolineatura marcata dalla stessa immagine di copertina del saggio di Canestrini: una tribale simpaticamente contaminata dalla modernità, una 'donna Boscimana', dai voluminosi cuscinetti di grasso sui glutei, emblema della diversità esaltata dagli ottocenteschi trattatati di antropologia, ma dotata di lettore mp3.«Un tempo il viaggio era appannaggio di pochi, geografi, navigatori, commercianti, missionari – spiega l’antropologo, o meglio, l’antropop – e non tutti erano titolati a fare reportage di viaggi. Certe conclusioni furono nefaste per l’antropologia». Si sono prodotti  falsi clamorosi, inganni più o meno intenzionali, equivoci, pregiudizi e malintesi talvolta ideologici e spaventosi, le prove di un pensiero già stabilito, talvolta originati semplicemente da domande mal poste o risposte malintese. 'Canguro' deriva da kangarù che nella lingua degli aborigeni australiani significa 'non capisco', ma quella fu la risposta che un aborigeno offrì al primo inglese che chiedeva cosa fosse quello strano animale con un tascone sulla pancia che saltellava… ». Un catalogo, quello degli abbagli antropologici, alcuni vere e proprie corbellerie, di cui Canestrini fornisce un curioso e a tratti divertito ventaglio storico. Ma oggi i rischi non sono minori. «Oggi tutti viaggiano e tutti interpretano tutto, facendo un po’ gli antropologi. Relativizzare è facile e banalizzare anche, perché i tour operator ci fanno consumare destinazioni e non vivere esperienze. Il mondo ci viene incontro – spiega ancora l’autore – ci offre le sue diversità pronto consumo, ma quando l’altro si fa conoscere in una serie di danze popolari indigene nelle hall degli alberghi, fare antropologia resta una bella sfida. Non mi scandalizzo, ma osservo con occhio disincantato e ironico gli effetti delle contaminazioni culturali, i comportamenti geneticamente modificati dalla riglobalizzazione. Le fusioni, i flussi incrociati, i giochi di specchi».

Che si tratti di Mecca Cola, versione araba della Coca Cola, stesso gusto ma etichetta diversa, del Gangnam style hip hop  americano in salsa coreana, delle mode di strada catturate dai trend-spotter nelle  periferie delle metropoli orientali e riconvertite in griffe di grido in occidente, o ancora delle generose forme delle schiave nere africane trasfigurate in crinoline, imbottiture e sellini nella moda femminile dell’epoca vittoriana, è sempre il frittatone il mare magnum in cui l’antropop deve addentrarsi per capire e spiegare senza arroganza e vigliaccheria, magari per far sì che quelle violente vengano abbandonate. «E possibilmente migliorare il futuro delle persone e delle culture, tener presente l’individualità che non rientra nelle facili categorizzazioni – conclude Canestrini – l’affettività e l’etica dell’umano che sfuggono alla pretesa di scientificità». Ostinarsi a cercare vecchi usi e costumi incontaminati dalla modernità rischia di far fare agli antropologi la figura di quegli ingenui studiosi, raffigurati in una vignetta famosa di Gary Larson, avvistati da un indigeno in gonnellina di paglia nella sua capanna, che al grido di 'Antropologi! Antropologi!' avvisa i compagni di far sparire cellulari, lampade, radio e tv.

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