lunedì 11 marzo 2013
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Caro Olmi, sulla «incontestabile opposizione dei due», il Grande Inquisitore e il Poverello di Assisi, siamo sicuramente d’accordo. E anche sul fatto che la Chiesa rimane «luogo dell’anima e al tempo stesso della lotta contro i cedimenti della fede». La differenza, ogni volta, è la fede che la decide: sul campo. La conversione alla nuda fede è quell’insostituibile atto di forza che sempre di nuovo la strappa dal suo confortevole «addomesticamento alle nostre debolezze» (come Lei si esprime, con formula molto felice e suggestiva). È certamente «una prova continua con noi stessi». Apparentemente nascosta, come il seme. Ma muove le montagne, se c’è.Una questione di tenuta, insomma, come dice l’Apostolo Giacomo, nella sua strepitosa lettera contro le devastazioni della chiacchiera e del risentimento, che incomincia con un’espressione che proprio san Francesco d’Assisi ha reso celebre: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove» (1, 2). Non si tratta certo di un invito alla rassegnazione, tutt’altro. La tenuta della fede non è certo una faccenda per smidollati. Certamente, è impossibile concepire un’alternativa tra la fede e la carità. Non è il caso di aprire qui la discussione sui molti aspetti dell’originalità cristiana su questo punto (basterà pensare al rapporto di reciproca conferma, religiosamente al limite dell’osabile, che il Vangelo stabilisce fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo). Non mancherà occasione di riparlarne, spero. In quell’occasione, potremo forse anche ragionare, meno sommariamente, del posto esatto in cui devono essere collocati, all’interno della tradizione ecclesiale della fede, i «dogmi» e il «bene». Diciamo solo questo, per ora. Anche l’amore evangelico, nella sua formulazione, ci fu consegnato come un inderogabile comandamento. Perché? L’amore non va forse «da sé»? No, non va da sé. Nella nostra vulnerabilità, anch’esso rimane esposto agli addomesticamenti della nostra libertà, fino a trasformarsi nella copertura dei suoi orribili contrari. (Non lo vediamo ogni giorno?). Lo splendido rigore del comandamento ci ammonisce che l’amore evangelico è il tema di un’obbedienza non falsificabile dalla fede: che esige – e giudica – la nostra capacità di tenere la passione per il bene a distanza dalle convenienze del benessere. Quanto ai dogmi, caro Olmi, essi sono semplicemente i comandamenti della fede, che sostiene la verità e la bellezza della nostra consegna a quell’amore. Quando noi stessi (i credenti per primi) ne abbiamo perduto la mitezza, o la forza, e siamo tentati di perderne anche la memoria, la regola della fede (questo è il dogma) ci ricorda come siamo venuti al mondo, perché ci stiamo, e come dovremo continuare ad esserci. In altre parole, i dogmi impediscono alle nostre contraddizioni di diventare, a poco a poco, la nuova regola della fede. E ci impediscono di «addomesticarla alle nostre debolezze», della mente e del cuore. Non è poco, amico Olmi, non le pare? Non è proprio questo che ci dà forza?
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