lunedì 9 agosto 2010
Torna d'attualità la scrittrice cattolica americana. Malata per 14 anni, prima di morire ha il coraggio di definire il morbo «una delle grazie di Dio». Nella sua opera sfila un universo truculento di corruzioni e falsità, descritto con feroce precisione di dettagli ma senza rabbia, con poesia.
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È possibile un simile fenomeno letterario? Immaginatevi una sorta di Faulkner al femminile, di religione non battista ma cattolica, con un senso del racconto degno di Henry James, un’ironia che ricorda Charles Dickens e Nikolaj Gogol, e – cosa ancora più stupefacente in questa scrittrice americana della Georgia – una singolare modalità di iscriversi in una forte filiazione francese, quella dei vari Bloy, Bernanos, Mauriac. Flannery O’Connor, eccolo qui il nome di questo miracolo del cielo o di questo fenomeno da fiera: non si saprebbe davvero come definirla, visto che lei senza dubbio avrebbe preferito questo secondo appellativo. Quando si trattò di farsi fotografare per la promozione del suo primo romanzo, la signorina dichiarò, commentando l’immagine che ebbe modo di inviare al suo editore: «Si potrebbe dire che sto per mordere mia nonna e che si tratta di uno dei rari piaceri che mi rimangono a questo mondo». Mordente lo è di certo, ma senza rabbia, con quella malefatta muta che rallegra i viventi e la crudeltà salutare che risveglia i morti. Nata nel 1925 a Savannah, nella terza generazione di immigrati irlandesi, Flannery O’Connor non lascerà quasi mai la grande cascina famigliare di Andalusia, a Milledgeville. Intanto sua madre, vedova, una robusta donna di campagna, vi dirige l’allevamento di buoi di razza «Santa Gertrude», mentre lei alleva polli e pavoni, questi ultimi in ragione della loro maestà grottesca, e i primi per la loro ridicola attrazione, due tratti che si ritrovano in quasi tutti i suoi personaggi. Dopo due o tre ore di scrittura al mattino, lei dà loro da mangiare cercando di non cadere dalle grucce d’alluminio. Già, perché è colpita da una malattia del sistema immunitario, il lupus eritematoso, che ha ereditato da suo padre e di cui subisce il lento divoramento per 14 anni. Muore nel 1964, alla vigilia dei 40 anni. Ma è come se avesse saputo ammansire questo grande e diffidente lupo, alla maniera di un Francesco d’Assisi o di un Cappuccetto rosso: «La malattia prima della morte mi sembra totalmente raccomandabile – scrive a una delle sue corrispondenti –. E penso che coloro che la ignorano sono privati di una delle grazie di Dio». A proposito del cortisone con cui cerca di contenere la sua malattia lei precisa: «Io devo la mia esistenza e la mia gioia di vivere alle ghiandole pituitarie di migliaia di maiali che quotidianamente vengono sgozzati a Chicago. Se i maiali portassero dei vestiti, io non sarei degna di baciarne l’orlo». Si intravede qui il principio del suo humour implacabile dove la causticità più corrosiva non scade mai nella derisione, dove il tratteggio del buio evita sempre le facili morbosità: questo avviene con grazia a partire dalla sofferenza da lei sperimentata. La sua opera dispiega un intero universo truculento e terribile di falsi profeti, di corrotti venditori di Bibbie, di vecchi lascivi, di piccoli bianchi odiosi affascinati dai neri, di grosse donne bionde con le gambe di legno, di ragazze che sognano di venir divorate dai leoni, come i primi martiri… Ella dipinge tutto questo con una tale forza evocativa e di precisione nel dettaglio buffonesco e un rilancio feroce che, nello stesso momento in cui si gusta la poesia del suo stile, si crede di assistere alla proiezione di un film che congiungerebbe in maniera improbabile la buffoneria dei fratelli Coen con la fede di un Robert Bresson. I suoi personaggi superano e oltrepassano le migliori figure di Quentin Tarantino. D’altra parte il suo primo libro – La saggezza nel sangue – fu adattato al cinema da John Huston. (traduzione di Lorenzo Fazzini)
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