giovedì 10 novembre 2016
Due mostre nelle terre toccate dal sisma, nate all’interno del Giubileo, illustrano il tema della speranza nell’amore di Dio atttraverso le immagini di Maria e Maddalena
Guido Cagnacci, “Maddalena in estasi”

Guido Cagnacci, “Maddalena in estasi”

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Sono arrivato a Senigallia il giorno dei morti, il vento forte sollevava nell’aria una polvere che sulla pelle dava la sensazione di una ruvida carezza, a occhi semichiusi procedevo verso Palazzo del Duca per far visita alla mostra Maria Mater Misericordiae. Il vento caldo non faceva sperare bene dopo le scosse del sisma in terra marchigiana. Ed è con questa sensazione di disagio che ho varcato la soglia della mostra. Dopo la prima stanza con le Madonne del Sassoferrato e il grande arazzo rubensiano dell’Assunzione della Vergine, prestato dal Museo diocesano di Ancona; superata la sala con la Madonna del riparo della bottega di Nicola di Filotesio, ecco una tavola sicuramente di sua mano, la Madonna col Bambino fra i santi Sebastiano, Antonio, Francesco e Rocco.

Nicola di Filotesio oggi è noto a tutti gli italiani, a chi osserva con mesta preoccupazione i disastri prodotti dal sisma. Il suo soprannome, infatti, è salito da poco agli onori della cronaca: Cola dell’Amatrice, che rimanda a uno dei paesi più colpiti dal terremoto. E quel dipinto è oggi il simbolo di una terra ferita, trafitta come il santo che guarda malinconico e rassegnato la Vergine, con quelle sette frecce in corpo che riassumono i dolori che la madre patirà nella morte del figlio. Lei è a suo modo la “Madonna del soccorso”, come appare secondo iconografia nella tela di Civitanova Marche, che illustra questo tema diffusosi dal XIII secolo, in particolare in ambito agostiniano, di cui restano esempi notevoli in terra umbro-marchigiana, ma anche a Sansepolcro, Firenze e Roma.

Maria è anche la madre umile, mater humilitas: un tema specifico della storia dell’arte che la vede seduta a terra mentre regge fra le braccia il Bambino (in mostra le bellissime Madonne dell’umiltà di Lorenzo Monaco, di Gherardo Jacopo di Neri, del Maestro di Sant’Ansano), tema indagato molti anni fa da Millard Meiss, a cui si lega – per via del nutrimento e della funzione protettiva della madre – quello della “Madonna del latte” rappresentato da Carlo Crivelli, dal cretese Antonio Papadopoulos, ma presente anche nella tavola di Cola dell’Amatrice: qui il latte è come un balsamo che nutrendo il figlio lo renderà adulto e capace di riscattare le sofferenze dell’uomo (simboleggiato dal sofferente san Sebastiano). Il sacrificio e la redenzione vengono in piena luce nelle opere dedicate alla Pietà, con la Madre che regge sulle ginocchia il corpo esanime del Figlio, come nella scultura di Michelangelo a San Pietro, il cui modello ritorna nella tavola del Clovio, in quella del Cigoli, nella misteriosissima Pietà marmorea di Jacopo del Duca tratta anch’essa da un disegno di Michelangelo, quello per la Pietà di Vittoria Colonna, dove il Cristo morto, sorretto fra le gambe dalla Madonna, a contatto col suo ventre sottolinea il ruolo corredentivo della Vergine.


Ma quel tenere sulle ginocchia appartiene alla tenerezza materna; è lì che Gesù ancora bambino si culla, dorme oppure fa sfoggio di vivace allegria, come nella straordinaria Madonna in trono adorante il Bambino dell’aquilano Giovanni Antonio da Lucoli (XVI secolo), opera in terracotta dalle notevoli dimensioni, policroma e con una spiccata dominanza dell’oro, che vede la madre come montagna che partorisce la pepita e al tempo stesso la protegge con la sua imponente mole. La Madonna della Misericordia, che questa mostra curata da Giovanni Morello e Stefano Papetti ci fa rivedere nelle sue declinazioni, è la Madre che accoglie tutti sotto il suo mantello (sapienza popolare anche questa, dove delle madri iperprotettive si dice che tengono i loro figli troppo attaccati alle sottane); la Mater Misericordiae è colei che apre le braccia, allarga le falde della propria veste e si fa caverna e riparo per coloro che sperano nel perdono. Ma questa forza non le viene da se stessa, ma dal frutto generato da quel grembo, come ci fa vedere il pittore marchigiano di fine Quattrocento nella tavola proveniente da Gradara. E al grembo dell’origine, alle sue insondabili profondità, allude il quadro della Vergine delle Rocce, attribuito nel 1991 da Pietro Marani a Leonardo con l’apporto della bottega, come seconda o terza versione rispetto a quelle di Parigi e di Londra già universalmente note. L’opera, di collezione svizzera e assicurata per un valore stratosferico, ha una stanza tutta per sé al cuore della mostra. E l’atmosfera arcana del dipinto, sottolineata dalle luci tenui dell’allestimento, lievita in silenzioso isolamento.

Di peccato ed espiazione è fatto anche il tema devozionale della Maddalena cui Loreto dedica una mostra, a cura di Vittorio Sgarbi e Stefano Papetti, incentrata soprattutto sul contrasto fra la bellezza della peccatrice e la seduzione della sua “santità” che non cancella la bellezza (anche erotica), ma la riflette nella conturbante esemplarità che la rende prossima alla Sulamita del Cantico dei Cantici; ad essa, per esempio, s’avvicina per il tema della lunga capigliatura (simbolo di seduzione femminile). Riconducendola all’aramaico il Talmud nota che la radice del nome Maddalena significa “acconciatrice” o “pettinatrice”, riferendosi così ancora ai capelli e agli unguenti profumati che segnano l’iconografia della santa. In mostra troviamo due esempi dove i capelli sono l’unico abito di Maddalena: la statua lignea di Desiderio da Settignano e Giovanni d’Andrea, proveniente dalla Santa Trinità di Firenze, e quella dello scultore anonimo del Nord-Est italiano: opere più o meno coeve, eppure diversissime nell’aspetto. La prima vive nel contrappunto con l’iconografia del Battista, che evoca la fuga nel deserto per preparare con la purgazione l’avvento del Redentore: qui la Maddalena è una donna “andromorfa”, che ha perso gran parte della propria femminilità e si è adeguata al modello maschile (l’aspra anatomia corrisponde a modelli verrocchieschi, al corpo prosciugato dalle passioni e di aspetto virile, ereditando così l’idea della donna come tentatrice che può riscattarsi soltanto negando ogni appiglio alla propria femminilità, tema ricorrente nelle omelie dei predicatori medioevali dove Maddalena diventa quasi l’antidonna). L’altra scultura invece è una bambolona dai lunghi capelli dorati che la fasciano fino ai piedi in una surreale mise che nega ugualmente la seduzione del corpo, strumento principe della peccatrice. È noto che nella figura della Maddalena si sommano storicamente i riferimenti a diverse figure femminili ricordate nei Vangeli. Georges Duby notò che Maddalena sembra il trait-d’union fra Eva e Maria.


D’altra parte, i capelli lunghi e biondi evocano la luce, la regalità, un fluxus divino le cui onde ricordano il movimento delle acque. L’acqua è mezzo di purificazione, e le lacrime ne sono il distillato più alto. Nelle fonti del culto di Maddalena, che ebbe il suo centro medioevale a Véselay, la santa è talmente versata nelle lacrime che a un certo punto, riassume Duby, «l’acqua ondeggiava sul pavimento». Lacrime di espiazione, come si può pensare vedendo il bellissimo frammento affrescato da Ercole de’ Roberti o il busto in terracotta di Guido Mazzoni, capolavori che segnano gli occhi. Ma nella Maddalena in meditazione del Cagnacci sono anche lacrime di tenerezza e di segreta speranza nella misericordia divina, cui si volgono gli occhi della santa resa in tutta la sua prosperosa femminilità (si sa che Cagnacci non si nascondeva dietro un dito quando dipingeva il tema femminile).

Il desiderio redento di Maddalena è ciò che vediamo nella copia che Louis Finson trasse dalla Maddalena in estasi di Caravaggio, oppure nelle tele settecentesche di Ignazio Stella e Giovanni Battista Pittoni; ma nella stessa epoca il bellissimo ovale di Giacomo Ceruti riporta all’equilibrio l’iconografia di una santa dove memento mori, peccato e amore redento convivono come leitmotiv della tradizione cristiana. Una nota conclusiva merita la Maddalena penitente del Tintoretto, opera di sorprendente modernità, sia nel rendere la santa con quella verità umana che potrebbe persino evocare a distanza di secoli una diva di Cinecittà, o una donna del bel mondo pentita dei suoi effimeri piaceri; sia per la tessitura pittorica di alcuni dettagli (la ruvida veste di sacco e la stuoia su cui è apparecchiata gran parte della scena) che sono brani di pittura astratta come pochi se vedono a quell’epoca.

Entrambe le mostre nascono nell’ambito delle iniziative per il Giubileo della Misericordia e sono accompagnate da cataloghi di Silvana Editoriale.

Loreto, Museo della Santa Casa
La Maddalenatra peccato e penitenza
Fino all’8 gennaio

Senigallia, Palazzo del Duca
Maria. Mater Misericordiae
Fino al 29 gennaio

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