Ad oltre trent’anni dall’uscita del primo volume, relativo agli anni 1922-1929 e curato dal compianto Mario Picchi, riprende la pubblicazione del carteggio tra don Giuseppe De Luca e Giovanni Papini. Il periodo abbracciato è il triennio 1930-1932 coperto da 240 lettere prevalentemente del “prete romano”: missive alle quali hanno sinora attinto alcuni biografi e che rivelano l’incontro di due amici tanto diversi in un periodo particolare. Quello di un contesto decisivo nelle relazioni tra mondo cattolico e fascismo: che rimangono tuttavia sullo sfondo mentre la corrispondenza si dipana fra confessioni dell’anima, monologhi e scambi di idee su temi differenti (l’autorità della Chiesa, la cultura, la fede…), riflessioni originali (le eresie, i dogmi, il potere…), sentenze taglienti (dalla papolatria alla critica contro l’idealismo), giudizi sapidi (su Praz o Chesterton, Weis o padre Gemelli, come su Gentile o Croce). Con don Giuseppe sempre meno impacciato (“nell’affetto”), con i suoi alti e bassi che cura più con sfoghi epistolari che con i farmaci, e via via nel ruolo di pungolo, consigliere, oltre che di intermediario ufficioso fra lo scrittore e le gerarchie vaticane, pur sentendosi ancora un “sorvegliato speciale” quanto a conti con il modernismo (per i suoi rapporti con Henri Bremond o Ernesto Buonaiuti, tanto da scrivere a Papini il 13 gennaio ’31 «ogni mio atteggiamento può sinistramente interpretarsi»). E con l’autore dai trascorsi iconoclasti ritornato nella Chiesa che, di buongrado, accetta confronti e giudizi, accoglie gli stimoli dell’amico sacerdote, se ne fa «terapeuta intellettuale», rendendolo partecipe pure dei suoi stati d’animo e delle sue tentazioni (compresa quella del ritorno a una più attiva militanza culturale: «La mia volontà è pronta e le forze che mi rimangono son destinate a glorificare Cristo e la sua Chiesa», scrive a De Luca, il 27 settembre ’31). Senza bisogno di contare, la parola Cristo, è certamente fra le più ricorrenti in queste pagine: ora nominata, ora celata tra le righe, sino a costituire una sorta di filigrana che attraversa quasi tutte le lettere dei due outsider, battitori liberi con un’idea fissa: accostarsi a Cristo. Alla maniera di Papini senza mediazioni, con l’animo nuovo di «chi sente sé stesso e Cristo e l’unione tra sé stesso e Cristo direttamente ». Alla maniera di De Luca che spiega le sue scelte – relazioni, libri, esser prete… – con il voler «stringersi a Cristo con assoluta e irritirabile dedizione». Quel Cristo che come don Giuseppe scrive a Papini il 19 giugno 1930 «non sarà amato, sino a che apparisce un fantasma, un mito, una divozioncella, e non il Signore delle anime e il Maestro dell’uomo e l’Amico ». Se è vero che il dialogo tra Papini e De Luca è durato trent’anni concludendosi con la morte – nel ’55 – dello “scrittore toscano” (nell’auspicio delucano però «scrittore universale »), e se è pur vero che la loro amicizia si andava esaurendo già nel dopoguerra quando l’autore della
Storia di Cristo veniva indicato da De Luca come uno dei «letterati italiani che più ho amato e meglio conosciuto» (sullo stesso piano di Croce, Cecchi, Baldini...), e non più come il destinatario esclusivo delle sue confidenze (quando arrivava a scrivergli «Perché mettere la sua amicizia con le altre? Non glielo perdonerò presto né facilmente. Non le scoprirei il fondo dei miei pensieri…», così De Luca nel ’31), è indubbio che proprio i due tomi del
Carteggio 1930-1932 ora pubblicati dalle Edizioni di Storia (ne è previsto un terzo) costituiscono il momento di maggior sintonia tra i due. «Gli entusiasmi smodati di De Luca per Papini cedettero il posto a un confronto più maturo in cui l’amicizia restava inalterata ed anzi si approfondiva, ma il dialogo tendeva a farsi più disincantato e talvolta più apertamente critico. Papini, dal canto suo, in questi anni si avvicinò molto a De Luca e ne subì certo l’influenza, se non altro nel temperare quei toni apocalittici e antimoderni contro la “bestialità umana”, lontani dalla prospettiva di un’autentica redenzione sul piano civile e morale, oltre che religioso, che avevano caratterizzato gli scritti del decennio precedente», scrive qui Anna Scarantino, che ha curato e introdotto questo carteggio rendendo conto di un dialogo alla pari. Certamente, come in altri epistolari coevi (quello con Fausto Minelli o Piero Bargellini, Vjaceslav Ivanov o Henri Bremond, Antonio Baldini o Giuseppe Prezzolini…), il progetto delucano destinato a realizzarsi dopo le stagioni delle contorte collaborazioni al
Frontespizio o alla Morcelliana va già qui delineandosi nella scelta privilegiata di elevare il livello degli studi religiosi, utilizzando in modo strumentale tutti i canali culturali (compresi quelli offerti dopo il Concordato del ’29) per raggiungere gli esitanti ai confini del Regno o
in partibus infidelium, scelta che intersecava l’aspirazione papiniana a risvegliare la vera anima cristiana della nazione, ma necessitava di rigore. E ciò anche in opposizione alla filosofia gentiliana combattuta dai neoscolastici dell’Università cattolica come «l’espressione più radicale del pensiero moderno, ateo e immanentista », e con il suo protagonista – Giovanni Gentile – agli occhi di Papini visto come «uno dei più pericolosi nemici che abbia il Cristianesimo, oggi, in Italia», ma che De Luca riconosceva di non poter liquidare sbrigativamente «in sede di religione e di polemica e apologetica di sagrestia», non per i loro sistemi filosofici un po’ in declino, ma per la loro «opera di cultura, ove han veramente lavorato e non male». E, in ogni caso, come dimostrano questa corrispondenza e gli stralci qui riportati, rimanevano nel prete romano granitiche convinzioni. La Chiesa non doveva essere concepita solo come un baluardo, bensì un organismo vivo dalle radici «nella realtà spirituale umana» e con «il suo più alto fusto nella Rivelazione». E la «riconquista cristiana della società» doveva «avvenire liberando il cattolicesimo da compiti non suoi»: dialogando con la cultura profana. Scriveva a Papini il 19 agosto 1931: «Ora è questo oggi il difficile ai cristiani, riuscire a “dominare” il mondo, intellettualmente, cioè saper vederlo in Dio. Siamo una truppa di talpe, che non si riesce a far valere, ragionando, la nostra Fede, e si scredita Iddio, servendocene solo pei nostri piccoli affari: sermoni, consigli, chiacchiere, devozioni, …Bisogna veder Dio dov’è, più su di tutto e di tutti, e che non ha paura del “pensiero moderno”…».