martedì 12 luglio 2016
​In mostra a Lovere i lavori del progettista bergamasco: una scuola sostenibile ad Haiti e un auditorium scavato in una collina della Maremma.
 Milesi, l'utopia si fa concreta
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Cosa hanno in comune una grande sala da concerti scavata in una collina nel cuore della Maremma e una scuola che insegna agli haitiani a costruire case di legno, in un’isola devastata dal sisma e prima ancora dalla deforestazione? Due mondi lontanissimi uniti dalla comune forza di un sogno capace di farsi realtà, dove si intrecciano bellezza della cultura, rispetto della natura e dignità dell’abitare. L’autore del sogno è l’architetto Edoardo Milesi, bergamasco, progettista in Toscana del monastero di Siloe e della cantina di Collemassari, di musei, spazi pubblici e privati e restauratore di castelli medioevali che sembravano ormai perduti, due volte ospite alla Biennale di Venezia… Della scuola sull’isola caraibica e del Forum Bertarelli si racconta nella mostra “Utopie concrete”, a Lovere (Bg) nella chiesa rinascimentale di Santa Chiara, fino al 23 luglio. Utopie perché entrambi i progetti nascono dalla capacità di andare oltre: in Toscana quella collina era destinata a una lottizzazione speculativa, un complesso di nove ville; ad Haiti nella ricostruzione venivano ripetuti gli stessi errori dell’edificazione pre-terremoto. «In Toscana – racconta Milesi – volevo preservare quel luogo la cui bellezza è nel connubio tra la natura spontanea e la natura plasmata dall’uomo, uliveti e vigneti. La fondazione Bertarelli ha assecondato il mio progetto: quella volumetria diventava un magnete culturale». Per avere successo l’opera, in gran parte ipogea, doveva avere peculiarità uniche: siamo infatti in un luogo dove non ci sono infrastrutture pubbliche, a un’ora da Siena. «Ecco allora il ricorso alla tecnica e non alla tecnologia per creare un teatro all’avanguardia: l’acustica è garantita non dall’impiego di impianti meccanici, ma dall’armonia della forma attraverso la sezione aurea. Abbiamo così ottenuto quello che gli antichi greci realizzavano nei loro teatri: musica e parole possono essere ascoltate allo stesso modo dai trecento ospiti senza l’ausilio di amplificazione. Da qui la forma primigenia, l’ovale. Una forma che crea la collettività, in modo intuitivo e spontaneo, e che si inserisce senza rigidità in quella natura di luce e di forme organizzate dal vento».  Come in tutti i suoi progetti, l’architettura è pensata da Milesi come originata dal luogo che la vede nascere e da quel luogo è abbracciata, un progetto disegnato dalla luce del cielo e dal profilo della terra, dalle acque e dall’aria. Perché non solo i materiali per costruire, ma anche energia e microclima vengono colti da quel che la natura offre. Per l’architetto bergamasco essenziale è cogliere il genius loci, che è insieme natura e storia, emergenze morfologiche e comportamenti umani, e sul genius loci costruisce non solo l’architettura, ma anche le condizioni per la vita e la manutenzione dell’edificio, spesso a impatto zero grazie all’utilizzo di fonti naturali. Il progettare di Milesi nasce dalla sapienza che ha mosso i costruttori fin dagli albori dell’umanità e dalla loro conoscenza degli elementi e vien prima della bioarchitettura, prima delle mode. La sua è una sapienza ben radicata nella terra, che lui ama e conosce, che è un tutt’uno con il cielo che la sovrasta. «Per Haiti – racconta Milesi –, a partire dalla coscienza che i 260mila morti non erano causati da una natura malvagia ma da un’edilizia irresponsabile, la vera utopia era quella di attivare un processo di ricostruzione riproponendo l’antica tecnica del luogo con la realizzazione di edifici in legno e contemporaneamente attivare un processo di rimboschimento attraverso piantagioni di alberi. L’isola un tempo era la più verde dei Caraibi, ma la foresta venne cancellata a causa delle coltivazioni intensive di canna da zucchero, volute dalle multinazionali americane». Perché l’utopia divenisse realtà è nata la scuola Giovanni XXIII a Port-au-Prince, grazie ai padri monfortiani e alla Caritas bergamasca che hanno creduto nel progetto di Milesi: instaurare un dialogo tra i volontari italiani e i giovani haitiani fin dalla progettazione ed edificazione della scuola professionale di edilizia per poi proseguire con la costruzione delle case che, «realizzate grazie a un sapiente e sostenibile mix di antiche e nuove tecniche, possono resistere non solo ai terremoti ma anche ai frequenti cicloni. Il segreto è l’invenzione, in loco, di un nodo metallico, punto di congiunzione dell’unico materiale impiegato, le assi di legno, che permettono di resistere a venti di 180 chilometri all’ora. Abbiamo diplomato capocantiere otto ragazzi e una ragazza (tra i 22 e i 28 anni). Le loro competenze vanno dalle tecniche costruttive alle conoscenze fondamentali di ecologia del cantiere e del villaggio: dalla trasformazione delle bottiglie di plastica in sabbia da costruzione all’utilizzo delle acque reflue, attraverso la fitodepurazione, in agricoltura. È stato così possibile costruire due villaggi, l’ultimo di quaranta case: una risposta alternativa ai caseggiati multipiano in cemento armato o alla realizzazione di 1.800 abitazioni una attaccata all’altra (costate 4 miliardi di dollari), che generano situazioni di grave invivibilità, disadattamento e inquinamento, a partire dalle acque con la conseguente esplosione del colera». A Milesi, in Maremma come ad Haiti, non basta il progetto, ha bisogno del cantiere, di essere guida del lavoro che rende l’idea opera degli uomini. Un progetto che si incarna nel ventre della terra, pronta ad accogliere le fondamenta, per poi stagliarsi nel cielo ridisegnando il paesaggio. E il suo cantiere ha il sapore di quelli dei mastri medievali che con genio e passione, insieme a una schiera di muratori, falegnami e scalpellini, erigevano chiese e cattedrali, segno della presenza di Dio in mezzo agli uomini, e ridisegnavano lo spazio rendendolo sacro.
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