sabato 15 gennaio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Donzelli ha riproposto molto opportunamente un piccolo classico della nostra sociologia, utile a capir meglio il momento cruciale della storia italiana del Novecento che sono stati gli anni del «miracolo economico». Ci sono altre date enormemente significative e forse più drammatiche nella nostra storia unitaria, nel Novecento ben due guerre mondiali, nonché il fascismo, e oggi gli effetti della globalizzazione. Ma gli anni del boom  della «dolce vita» hanno radicalmente e rapidamente mutato il nostro volto, introducendoci definitivamente nella «cattiva modernità». Di Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, che uscì tempestivamente per Feltrinelli nel 1960, non posso parlare senza mettermi in gioco, perché gli autori, entrambi scomparsi, furono miei amici, Franco Alasia operaio lombardo che divenne il collaboratore più assiduo e fedele di Danilo Dolci, e Danilo Montaldi, autore delle indimenticabili Autobiografie della leggera, storico e sociologo, ma anche militante politico che collocherei nella difficile confluenza tra pensiero anarchico e pensiero leninista. Fu Montaldi a far pubblicare pochi anni dopo presso Feltrinelli, di cui era consulente, il mio L’immigrazione meridionale a Torino che Einaudi mi aveva commissionato e poi rifiutato, né più né meno perché vi si denunciavano alcuni elementi della politica cittadina della Fiat, che era intervenuta di recente tramite il suo istituto finanziario nel salvataggio della casa editrice da una delle sue periodiche crisi. Il mio libro voleva seguire in qualche modo una strada diversa, quella più banale dell’inchiesta minuziosa che raccontasse e ragionasse, una dimostrazione più che una denuncia, rifiutando la linea che pure mi era assai cara delle «storie di vita» seguita dai miei modelli, Dolci, Scotellaro, e per l’appunto Montaldi, che però in Milano, Corea aveva aggiunto un vero e proprio saggio alle storie raccolte da Alasia. Forse feci bene, forse no, ma a quel tempo volevo uscire dalla tradizione delle storie di vita, che mi sembrava più letteraria che sociologica, per inoltrarmi nella spiegazione più vasta e complessa di un’esperienza umana fondamentale nel contesto della società del tempo – l’esperienza dell’emigrazione dal Sud al Nord e dalla campagna alla città, che sconvolgeva l’assetto e la cultura del paese e che mi sembra ancora il dato centrale della storia sociale di quegli anni.  In Milano, Corea (erano chiamate Coree i borghi che nascevano allora alle porte della città, tra le cascine abbandonate, le baracche inventate lì per lì e le nuove costruzioni  della speculazione edilizia) sono però rappresentati i due modelli, quello delle storie di vita (Alasia) e quello dell’inchiesta-saggio (Montaldi) e avrei anche potuto dividere il mio libro in due parti, seguendo questi modelli, ma in definitiva predilessi il secondo, e non sono io a dover giudicare se feci bene o male. Rimane il fatto che Milano, Corea è un libro affascinante, oggi, per ciò che racconta – una Milano in piena mutazione, un’umanità costretta ancora alla marginalità – e per ciò che può dirci su altre esperienze, per il confronto che possiamo derivarne con altre situazioni di ieri e di oggi. In fondo, uno dei miei modelli, ben noto a Montaldi, era l’inchiesta sulla classe operaia inglese di Engels, mentre non conoscevo ancora i grandi lavori della Scuola di Chicago, e di urbanizzazione dei contadini si trattava, di una nascente nuova classe operaia che, pochi anni dopo, avrebbe determinato le lotte dell’«autunno caldo» e del ’69.  Nella sua prefazione all’edizione Donzelli, lo storico Guido Crainz elenca i pochi lavori, perlopiù giornalistici, pr esempio quelli della Cederna e di Bocca, che, oltre ai due ricordati, si occuparono negli anni del boom della grande trasformazione in atto, e dice che Milano, Corea documenta in qualche modo la fine di una storia mentre L’immigrazione meridionale a Torino, un’inchiesta compiuta due o tre anni dopo l’altra, documenta l’inizio di una nuova storia. Il processo di trasformazione fu infatti rapidissimo, bastarono tre o quattro anni a cambiare il quadro di una situazione e l’apertura di nuove sfasature, di nuove crisi. Le storie raccolte da Alasia hanno ancora, a volte, un sapore da El nost Milan (il lavoro teatrale di Bertolazzi che poco tempo prima era stato riproposto da Strehler al Piccolo), ed evocano in qualcosa una tradizione ottocentesca di narrazione della miseria lombarda, che è però come dilatata, per il tramite degli immigrati, da una modernità incipiente, quella stessa in cui Testori scavava nei suoi racconti e nella sua Arialda. Il saggio di Montaldi colloca quelle vite e quelle fatiche in un quadro più vasto, di una società in veloce cambiamento, di una borghesia spavalda nel cercare di dominarlo, di un movimento operaio che non sa starle dietro (cioè avanti) efficacemente. Milano, Corea è in definitiva uno di quei libri «di passaggio» che sono utili oggi più che mai per ragionare sul passato ma anche per affrontare i grandi problemi delle nuove migrazioni, delle nuove mutazioni, delle masse di persone che non trovano rappresentanza e che il potere macina a suo piacere, mentre sono in pochi a saperne difendere la dignità (a Milano, solo, mi pare, con le notevolissime eccezioni della curia e di parte dei sindacati).
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: