Mario Corso con Gianni Rivera in un Milan-Inter del 1972
C’era una volta il derby di Milano. «Il derby visse allora delle molte occasioni mancate e degli errori di controllo...Gli accorgimenti tattici divennero confusione, le marcature crearono ripicchi (al solito) e la gente urlava delusa, ora dell’arbitro ora dei propri beniamini». Gianni Brera, cronaca sul "Giorno" di un Milan-Inter 1-1 dell’ottobre del ’56: a ripescare frammenti di Storia, ti trovi tra le mani sempre l’attualità. C’era una volta il derby di Milano, nell’età dell’oro - gli anni ’60 - di una città in pieno boom economico. Si lavora, molto, si produce, tantissimo, si investe, si specula. Il benessere diventa una possibilità. L’Inter del Mago Herrera, il Milan di Rocco. Milano padrona d’Italia, Milano padrona d’Europa. In un giorno di pioggia una punizione a "Foglia morta" di Mariolino Corso, il "Paròn" che va a sedersi in panchina - le panchine di legno di quell’epoca - e ha le mollette strette sui pantaloni, perché l’orlo non vada a morire dentro le pozzanghere. Sarti Burgnich, Facchetti: quella filastrocca eterna. Un lancio di Gianni Rivera a servire Prati in profondità, un gol dopo appena tredici secondi di un Sandrino Mazzola non ancora "Baffo", figlio d’arte imberbe che a fine partita firma autografi ai carabinieri chiedendo nome e cognome. C’erano una volta Enzo Jannacci e Beppe Viola. Questa è «Vincenzina e la fabbrica»: «Zero a zero anche ieri ’sto Milan qui, con Rivera che ormai non mi segna più… Il padrone non c’ha neanche ’sti problemi qui». Milano che cambia. Gli anni ’70: il chioggiotto Cerilli con i calzettoni abbassati, alla cacaiola, come il suo idolo: Omar Sivori. Egidio Calloni, lo Sciagurato Calloni: tiro, gol, no, è finita fuori, ancora una volta.
Ci sono derby che segnano il passaggio tra due epoche. E alle ore 14 di domenica 3 marzo 1980 il sindaco di Milano Carlo Tognoli - mentre dalla tribuna gli lanciano giornali e cartacce - scopre una lapide in memoria di Giuseppe Meazza detto «Peppin». Lo stadio di Milano cambia nome: Meazza, non più San Siro. Il Milan di Sacchi, il profeta di Fusignano che col megafono che da una collinetta di Milanello rivoluziona il calcio italiano, coi rayban a specchio, lo sguardo folle e lucido del profeta e il pressing esistenziale. Gullit, Van Basten, Rijkaard: il Milan degli olandesi. E l’Inter «tedesca» di Matthaus e Brehme che - c’è il Trap a tenere le briglie - incastra uno scudetto in anni di strapotere rossonero, tra Sacchi prima e Capello poi. E’ tempo di dinastie: l’Inter che a metà anni ’90 torna ai Moratti, attraversa Calciopoli, fissa il proprio apogeo nel maggio del 2010: è l’anno del Triplete, vedi alla voce Mourinho. Dall’altra parte il lento declino dell’impero rossonero di Berlusconi. 2007: ultima Champions con Ancelotti, 2011 ultimo scudetto con Allegri. Milano passa ai cinesi, siamo ai giorni nostri: il derby diventa terra di conquista per la finanza internazionale. Nomi che rimbalzano, evocano, illudono, preoccupano. Ombre cinesi: Yonghong Li, Milan; Zhang Jindong, Inter. Lontani i tempi dei «casciavit» milanisti e dei «bauscia» interisti. Quella Milano non c’è più, quel derby è un gettone del telefono dimenticato in qualche cassetto, tra vecchie foto morse ai bordi dalla Storia e ritagli di tornali ingialliti.