venerdì 31 marzo 2017
Katugamapla porta sul grande schermo la vicenda di una madre e di un figlio adolescente cingalesi in una provincia italiana del Nordest, separati da un abisso di tensioni e incapacità di comunicare.
Kaushalya Fernando e Julian Wijesekara in “Per un figlio” di Katugampala

Kaushalya Fernando e Julian Wijesekara in “Per un figlio” di Katugampala

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Le difficoltà dell’integrazione raccontate attraverso i silenzi, gli sguardi, i piccoli gesti quotidiani di una madre e di un figlio adolescente, cingalesi in una provincia italiana del Nordest, separati da un abisso fatto di tensioni e incapacità di comunicare. Dopo la menzione speciale della giuria al 52° Festival di Pesaro, arriva nelle nostre sale Per un figlio di Suranga Deshapriya Katugampala, giovane filmmaker dello Sri Lanka arrivato a 10 anni in Italia, dove ha coltivato la passione per il cinema d’autore e dopo alcuni corti ha realizzato il suo primo lungometraggio. Non una storia di immigrazione, ma di lavoro e solitudine, rancore e ostilità. Sunita (Kaushalya Fernando, attrice assai celebre in Sri Lanka), ha preceduto il figlio in Italia ( Julian Wijesekara, frequenta il liceo scientifico a Milano, balla l’hip hop e pratica le arti marziali), e lavora come badante per un’anziana e petulante signora. Il ragazzo non fa nulla per nascondere la propria sorda ostilità nei confronti di una madre che parla poco l’italiano e che «non capisce niente», la rifiuta come fa con le proprie origini. Katugampala ci ha raccontato la genesi del film e la sua esperienza di immigrato di seconda generazione.

Come è nata questa storia?

«Non è una vicenda autobiografica, ma l’ho comunque vissuta da vicino. Sono arrivato in Italia da bambino e ho visto quello che racconto».

La frattura tra chi non vuole allontanarsi dalle proprie radici e chi invece lo fa in maniera radicale è davvero così profonda?

«Anche gli immigrati di prima generazione cercano un nuovo senso di appartenenza ma si confrontano con un paese ai loro occhi più decadente, che li guarda dall’alto in basso. C’è la frustrazione di vedere spesso la propria dignità calpestata e di non vedersi riconosciuti, ad esempio, gli studi fatti. E rimpiangono le domenica trascorse insieme in spazi aperti come spiagge, parchi e piazze e non nei centri commerciali, nuovi luoghi di aggregazione».

Pensano che l’Occidente stia rinunciando ai propri valori?

«Pensano che l’educazione e i valori trasmessi ai figli a casa non vengano riconfermati dalla società. Viviamo comunque in un momento in cui il ruolo del genitore è in profonda crisi».

Il film racconta infatti non solo una frattura culturale, ma anche generazionale.

«Questa è soprattutto la storia di una madre e di suo figlio, di un rapporto universale nel quale possono riconoscersi adulti e ragazzi di ogni paese».

Il film è stato scritto anche grazie al contributo degli attori.

«Esisteva un canovaccio di poche pagine, preciso però nell’obiettivo da raggiungere. Amo molto il documentario, anche se non ne ho mai girato uno, perché riesce a sognare restando con i piedi per terra. Anche il modello di produzione del documentario è molto affascinante, quindi ho cercato di replicarlo, mischiare attori professionisti e non professionisti, ai quali non volevo negare uno spazio di espressione all’interno della storia. Per restituire la verità era necessario un racconto semplice, che mostrasse quello che succede giorno dopo giorno».

Guardando a quale cinema d’autore?

«Amo il neorealismo italiano, ho imparato da quello e sento questo film profondamente italiano».

Ha però utilizzato una troupe cingalese.

«Abbiamo portato in Italia cinque persone, maestranze che potevamo facilmente trovare sul luogo, ma volevamo offrire loro un’esperienza unica e chiudere il cerchio, attingendo a saggezze e conoscenze del paese di origine, professionalità sconosciute in Europa. Il mio obiettivo è quello di non abbracciare tutto quello che trovo qui lasciandomi alle spalle il lo Sri Lanka, ma realizzare un continuo scambio tra i miei due paesi».

Com’è andata sul set tra i due protagonisti?

«Kaushalya è venuta in Italia per un mese e mezzo e per qualche giorno è stata con mia zia, che fa veramente la badante. Abbiamo vissuto tutti insieme in un appartamento a Verona, e per gli attori è stato molto importante per un processo creativo più vicino al teatro che al cinema. E poi c’è Nella Pozzerle, straordinaria attrice del gruppo teatrale di Velo Veronese, una donna forte e determinata, molto diversa dal personaggio che interpreta».

Nella scena del rito di purificazione la madre vorrebbe scacciare i demoni del figlio, mentre questi gioca con lo smartphone.

«Mi affascinano le contraddizioni e i paradossi che nascono quando una cultura comincia a mettere radici all’interno di un’altra. Il confronto con la realtà cambia molto le cose, le rende meno credibili, soprattutto per i più giovani. Da piccolo ero colpito dal monaco buddhista in Italia che indossa sciarpe, guanti, scarpe, calzini rossi, e ha il termosifone vicino. Mi interessava lavorare sulla decostruzione dell’immaginario esotico e sulla metamorfosi di certe figure a contatto con realtà diverse».

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