giovedì 30 luglio 2015
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L'ospedale non è un buon posto per gli anziani. O per morire. Moltissime famiglie lo sanno per esperienza diretta. Ma troppe volte si sono sentite dire che per i loro cari non c’è alternativa. Quando un genitore, avanti con gli anni e indebolito da una malattia o da un quadro complesso di condizioni croniche, volge al peggio, di solito l’unica soluzione è portarlo al pronto soccorso. Ma non deve essere così. Sempre più medici sono convinti che seguendo gli anziani a casa si ottengono molti più risultati che aspettare una febbre inspiegabile o una crisi respiratoria che costringeranno al ricovero. E che, con un paziente già conosciuto, molte crisi possono essere gestite a domicilio. «Con un’assistenza professionale a casa si prevengono le emergenze più gravi, si mantiene la famiglia sotto controllo, si dà serenità all’anziano e, nel lungo termine, si fanno risparmiare soldi al sistema sanitario», spiega Brad Stuart, un internista specializzato in medicina palliativa presso la rete non profit di ospedali, cliniche e ambulatori Sutter Health, che copre oltre cento città in California. Il medico ha creato il primo “programma di management delle malattie avanzate” negli Stati Uniti. Dal 1999 l’ha fatto crescere in una struttura chiamata “Aci strategies”, che gestisce le cure di centinaia di anziati oppure malati terminali: quel 5% della popolazione americana che assorbe metà di tutti i costi sanitari. Altri medici, in altre città, hanno seguito il suo esempio, con il risultato che, se dal 1970 al 2009 la spesa sanitaria negli Usa è aumentata di oltre il 9% ogni anno, negli anni successivi è diminuita del 4% l’anno. Il medico racconterà la sua esperienza in un incontro a Rimini, durante il Meeting per l’Amicizia dei Popoli, il 23 agostro prossimo.Dottor Stuart, in cosa consiste il suo approccio con il malato?«È un cambiamento fondamentale, ma l’idea è semplice: costruiamo una squadra multidisciplinare che visita regolarmente i pazienti più vulnerabili e coordina i servizi relativi alla loro salute. Il concetto di base è che non si tratta di un trattamento medico ma di una cura della persona, che contribuisce a soddisfare i suoi obiettivi personali».Come è approdato a questa soluzione?«Durante il mio tirocinio in ospedale ho visto anziani uccisi da chemioterapie ormai inutili, o costretti a finire i loro giorni intubati, scomodi, incapaci di dire addio ai loro cari. Non ero religioso ma ho sentito il bisogno spirituale di ridare loro dignità e pace».Lei parla di obiettivi personali dei malati. Quali possono essere? E può un medico realizzarli?«Guardi, un malato terminale o un anziano non chiederà mai al suo dottore di guarirlo. GLi chiederà di poter rimanere a casa. Di non sentire dolore. Di essere portato all’aria aperta. Di poter parlare o scrivere senza essere immobilizzato da tubi. Il nocciolo del metodo è la volontà della persona e la comodità sua e dei suoi cari. E ci sono tanti modi per raggiungerla. Finché non si prova il sistema delle visite a domicilio non si capisce quanto si può fare». Da chi è composta la squadra multidisciplinare?«Un medico, infermieri, assistenti sociali, a volte uno psicologo. Il medico non deve visitare il paziente spesso, ma coordina gli interventi, in modo da poter seguire numerosi soggetti».  Perché questo approccio si sta diffondendo proprio ora?«Sono cambiate alcune cose. Il dibattito sulla fine della vita si è fatto più maturo. Gli ospedali hanno raggiunto costi di gestione insostenibili e hanno cercato cambiamenti strutturali per ridurre le spese. E “Obamacare” (la riforma della sanità voluta dal presidente, ndr) ha aiutato molto, cambiando il modo in cui vengono rimborsati gli ospedali: non sulla base dei singoli trattamenti ma di parametri più complessi che penalizzano quei nosocomi che ricoverano ripetutamente la stessa persona». E i risparmi sono sostanziosi?«Riduce i ricoveri del 63%, i giorni in terapia intensiva dell’80% e le spese mediche dal 20 al 30%. Con questi numeri alla mano è diventato più facile parlare con le assicurazioni private e convincerle a rimborsare ai pazienti i costi delle cure a domicilio. Al momento sto lavorando con una grande fondazione ospedaliera che potrebbe fare adottare la nostra iniziativa a molti dei maggiori sistemi sanitari del Paese. Siamo davvero a un punto di svolta. Del resto, sono medico da 40 anni e non ho visto nessun altro investimento in attrezzature, medicine o tecnologie produrre tanti risultati come questo metodo. Allunga anche la vita delle persone».Ha accennato a una motivazione iniziale di tipo spirituale. La anima ancora nel suo lavoro?«Ci ho messo un po’ a capirlo, ma devo ammettere che è stato un impulso spirituale a spingermi a voler curare gli altri. Ma in ospedale mi sono sentito svuotato da questo impulso e sempre più arrabbiato. Poi mi sono reso conto che non basta curare per essere un medico. Devi avere un profondo rispetto per l’anima della persona che hai di fronte, ascoltarla con attenzione ed essere  scrupoloso nel cogliere ciò che viene dal suo cuore. Con gli anni ho visto che tutti i medici migliori lo fanno e che cercano di eliminare gli ostacoli che impediscono questo ascolto. La nostra è una professione profondamente spirituale».“INIZIO E FINE VITA” AL MEETING DI RIMINIDelle nuove frontiere della sanità pubblica secondo l’esperienza dell’americano Brad Stuart (Chief medical officer of Sutter Care at Home) si discuterà il 23 agosto al Meeting di Rimini che ha per tema un verso di Mario Luzi, “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?”. Titolo dell’incontro (ore 15.00),  “La cura del paziente: inizio e fine vita”, introduce Elvira Parravicini, assistente di Pediatria alla Columbia University.
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