martedì 2 settembre 2014
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Oltre 250 volumi in oltre 50 anni di carriera: Gianni Berengo Gardin li ricapitola e sintetizza in "Il libro dei libri", pubblicato nel formato 23,5x28,5 centimetri da Contrasto (312 pagine, 39 euro). Scatti, copertine, titoli e sguardi che partono dal primo libro realizzato nel 1960 dal maestro della fotografia italiana (Biagio Rossetti Architetto ferrarese) per arrivare cronologicamente a Storie di un fotografo, edito lo scorso anno. A curare la selezione dei titoli è Bruno Carbone, mentre firma un saggio introduttivo Peter Galassi, per oltre vent’anni capo curatore della fotografia al MoMA di New York. Sfogliando il corposo volume, si attraversano la storia recente e i cambiamenti del gusto editoriale. Particolarmente significative le collaborazioni con altri fotografi e i numerosi incontri con intellettuali che hanno scritto per l’autore e di lui: da Mario Soldati a Giorgio Bassani, da Cesare Zavattini a Federico Zeri e Renzo Piano. Il suo sguardo sulla realtà, dal 1954 a oggi, «non è cambiato. Penso di fotografare sempre allo stesso modo. Perché per me l’importante non è come, ma cosa si fotografa: i volti, le persone, le situazioni, i contesti, con la propria sensibilità. I miei maestri sono stati i grandi americani e francesi come Willy Ronis, Boubat, Izis, Cartier-Bresson: mi ha colpito il loro modo di lavorare». Piedi ben saldi a terra, occhi dritti negli occhi, una dose di schietta affabilità e una piattaforma di sana umiltà a cui ancorarsi: quando s’incontra Gianni Berengo Gardin la prima impressione è che la sua carismatica personalità sia tutta concentrata e quasi nascosta nelle sembianze di un uomo esile di 84 anni, sempre coerente a se stesso, anzitutto alla sua grande umanità. A margine del Festival della Mente di Sarzana – l’undicesima edizione si è chiusa domenica scorsa – il maestro si racconta a tutto campo, senza lesinare le sue critiche ai «cosiddetti artisti fotografi, che si fanno chiamare così» e alla moda di scattare selfie con i telefonini: «Quello è un gioco, ma la fotografia è una cosa seria». Originario di Santa Margherita Ligure, Berengo Gardin ha vissuto a Roma, in Svizzera, a Parigi e circa vent’anni a Venezia «in piazza San Marco», per poi stabilirsi a Milano. Tra i soci del circolo fotografico “La Gondola”, dal 1954 al 1965 ha collaborato con immagini di reportage al settimanale Il Mondodiretto da Mario Pannunzio. Ha pubblicato sulle principali testate della stampa illustrata italiana e internazionale e con tanti editori; i suoi scatti figurano in collezioni di diversi musei e fondazioni culturali. “Il libro dei libri”, pubblicato da Contrasto, rappresenta un bilancio della sua carriera? «Più che un bilancio, è un riassunto. Degli oltre 250 volumi usciti, non tutti sono di altissima qualità o documenti importanti, ma ho voluto citarli ugualmente perché raccontano anni di lavoro. E la fatica della malora che ho fatto». C’è una fotografia o più di una che l’hanno particolarmente emozionata nel momento in cui scattava? «Dovrei citare una cinquantina di libri, ma per primo Venise des saisons, corredato da testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani, uscito nel 1965. Poi l’indagine sui manicomi con Franco Basaglia: un lavoro che è servito in parte a far maturare la riflessione che ha portato alla legge 180. Ricordo anche di aver seguito i passi di Cesare Zavattini nel suo paese d’origine, Luzzara. Agli zingari italiani ho dedicato due reportage, uno con testi di Günter Grass; ho passato un mese e mezzo con loro a Firenze, una ventina di giorni a Palermo con passai a Palermo, Trento, Bolzano, Padova Reggio… L’ultimo libro importante? Sulla cultura del riso nel nostro Paese: ho trascorso quattro stagioni vicino Vercelli in una vecchia cascina che un tempo era il dormitorio delle mondine. Un microcosmo che aveva pure una scuola elementare interna. Fino ad arrivare alla produzione attuale del riso, a livello industriale». Il suo ultimo reportage sociale? «È ancora in mostra a Milano, a Villa Necchi, fino al 28 settembre: 27 foto scattate fra il 2013 e il 2014 contro le grandi navi a Venezia. S’intitola, appunto, Mostri a Venezia. Ho voluto denunciare l’inquinamento visivo e materiale, oltre al pericolo di incidenti. L’esposizione è organizzata dal Fai». Cosa ha imparato dagli incontri e dalle situazioni che ha visto, a livello umano e professionale? Qual è la sua metodologia di lavoro? «Alcuni argomenti li conoscevo bene, ad esempio Venezia: ci ho vissuto per vent’anni, mio padre era veneziano, così mia moglie e miei figli. Molti altri lavori riguardano temi che non conoscevo: ho approfondito il problema con molte letture e documentazione, ho preparato una scaletta su quello che avrei dovuto fotografare. Poi mi sono affidato alla fortuna – un pizzico aiuta sempre – e all’istinto». In ciò che vede cosa la colpisce e cosa punta a evidenziare? «In India, per esempio, sono andato alla scoperta dei villaggi rurali, non delle grandi città. Da ragazzo mi aveva colpito una frase di Gandhi: “Voi occidentali andate a Bombay, a Calcutta, ma la vera India è nei villaggi”. La vita e il lavoro dei contadini». Quali realtà invisibili pensa di aver reso visibili con i suoi scatti? E quali temi si dovrebbero esplorare? «Ci sono molti temi che si conoscono, ma che non approfondiscono. Susan Sontag diceva: “A forza di fotografare bambini neri che muoiono di fame, non ci commuoviamo più vedendoli”, perché c’è un eccesso di fotografie del genere. Nella realtà di tutti i giorni vanno esplorati gli aspetti meno conosciuti. Le idee mi vengono al momento. A volte dalla lettura dei giornali. E poi, per rilassarmi, leggo Simenon». C’è un futuro per il fotogiornalismo sociale in Italia? «L’eccesso di immagini è causato dal telefonino, usato per fare il 5 per cento delle foto serie, mentre il 95 per cento resta un gioco cretino, tra virgolette. Il digitale ha inflazionato le foto. Ma se l’interesse nei media sta calando, non è così per le mostre d’inchiesta e di reportage: si forma una lunga coda di persone per vedere le esposizioni promosse dall’agenzia Magnum. Perché la fotografia serve a raccontare e a far capire meglio la realtà. Adesso le testate giornalistiche, per risparmiare, danno un telefonino in mano al giornalista perché scatti o chiedono al fotografo di scrivere: quando l’hanno fatto con me, ho sempre risposto che quello non era il mio lavoro e non mi hanno più contattato. A ciascuno il suo mestiere. Credo nel lavoro in tandem, giornalista e fotografo. E nell’importanza della fotografia».

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