domenica 2 marzo 2014
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Il titolo del suo ultimo saggio, Perché il Sud è rimasto indietro, edito dal Mulino (pagine 260, euro 16,00) inizialmente doveva conte­nere anche la frase: «I conti con noi stessi», perché – questa è la tesi di Emanuele Felice – se il Mezzogiorno è rimasto per alcuni ver­si al palo, la colpa è della classe dirigen­te/ dominante che si è succeduta nel Meridione. Il giovane studioso, storico dell’economia, da Vasto, città natale, è emigrato (lo ammette senza remore) in Spagna e insegna all’Università Autonoma di Bar­cellona. Il suo è un saggio denso che scarta spiega­zioni storiche (i colonizzatori piemontesi, per in­tenderci) e anche ragioni geografiche, biologiche o culturali. La differenza tra Nord e Sud è dovuto prin­cipalmente al Sud. Tale asserzione non va presa ma­le sotto Roma. La spiegazione, in realtà, mette sul banco dei responsabili una classe dirigente che è sta­ta al gioco per suo interesse. Professor Felice, a cosa dunque è dovuta questa differenza tra le due Italie? «Certamente a qualcosa che è accaduto dentro il Mezzogiorno. Ripropongo le tesi di Croce e di Sal­vemini, questo filone del meridionalismo classico che accusa la borghesia meridionale di non aver svolto il suo ruolo, anche perché debole, e contesta ai baroni del Sud di essersi alleati con gli industria­li del Nord. Riprendo e attualizzo queste tesi fino ai nostri giorni in base a un quadro statistico dall’U­nità ad oggi che ho contribuito a realizzare. Questi dati sulle differenza del pil e di altri indicatori sono collegati alla letteratura internazionale sulle classi dirigenti estrattive e inclusive. Le prime sfruttano ric­chezza e non ne generano altra». Si riferisce a Daron Agemoglu e a James Robisons. Quali sono, dunque, le istituzioni estrattive al Sud che hanno determinato queste distanze? «Le politiche di tipo estrattivo non puntano a crea­re ricchezza nuova, come invece certi meccanismi inclusivi, che sono creatori di ricchezza. Ad esem­pio la rivoluzione industriale che ha favorito l’e­mergere di ceti nuovi e la creazione di imprese. Que- ste ultime necessitano di un’impostazione istitu­zionale che premi il merito e l’intraprendenza. Al Sud questo non è avvenuto. Nell’Ottocento le isti­tuzioni nel Meridione hanno puntato a mantene­re la rendita agraria della terra, nel Novecento a di­stribuire la ricchezza che veniva dallo Stato, a spar­tirsi cariche pubbliche e a offrire posti in cambio di consenso elettorale». Al Nord, invece? «Se pensiamo ai distretti industriali del Nord-Est o alle grandi imprese del Nord-Ovest, abbiamo avu­to qui istituzioni molto inclusive. Dura l’illusione unitaria che fa credere che le istituzioni siano u­guali al Nord e al Sud. In realtà sono diverse nel fun­zionamento fin dall’età liberale». Lei scrive che la strategia è quella di riconvertire queste istituzioni da estrattive in inclusive. Ma chi può farlo?«Dovrebbero farlo i cittadini. Ma non ne vedo le condizioni perché è più facile emigrare. L’idea del­la fuga è praticata fin dalla fine dell’Ottocento. Se chi è andato via fosse rimasto al Sud forse avremmo oggi un contesto diverso. I cittadini potrebbero far­lo se ci fosse un elemento di rottura che venisse dal­l’esterno. In passato ci sono stati di tali fattori, ma sono andati perduti».Ma l’Unità non fu in questo senso un elemento di rottura? «Certo, poteva cambiare la situazione, ma fu fatta con l’alleanza delle classi dirigenti del Sud e anche con la mafia e la camorra. L’intervento straordina­rio nel Mezzogiorno durante il miracolo economi­co pure poteva essere un elemento di rottura però anche quello è finito male, anche per sfortuna. Se fosse solo durato di più e non fosse arrivata la crisi del 1973 con il petrolio che aumentò! Oggi non ve­do in prospettiva altri fatti capaci di determinare u­na sterzata». Neppure la Ue? «In teoria sì. Ma l’Europa ha problemi suoi seri e a livello strategico è più interessata all’Est che non al Sud Italia. Potrebbe essere un fatto­re di modernizzazione ma, proiet­tata in un quadro europeo, mi pare che tutta l’Italia e non soltanto il Sud, abbia bisogno dell’azione di mo­dernizzazione dell’Europa. Mi rife­risco a tutto il sistema giudiziario o dell’amministrazione, ad esempio». Al Sud c’è stata quella che defini­sce modernizzazione passiva, vale a dire senza cambiamento socia­le...  «Esatto: una modernizzazione pas­siva alla quale le classi dirigenti si a­dattano. La modernizzazione dal­l’Ottocento è stata una forza inevitabile con cui tut­te le società arretrate hanno fatto i conti. Lo hanno fatto però in modo diverso, a secondo dei contesti istituzionale. Le istituzioni inclusive, appunto, han­no promosso una modernizzazione attiva che si è avuto a Nord con la Fiat, per fare un solo esempio. Quella passiva fa dire alle classi dirigenti: stavamo bene come stavamo. Ora arriva questa moderniz­zazione. Ci confrontiamo con essa, ma l’accettiamo nel misura in cui ne ricaviamo benefici, limitando i cambiamenti sociali più dirompenti che essa com­porta... ». Insomma, il gattopardismo. «Esattamente: lo stesso fenomeno spiegato non in termini letterari, ma con strumenti storico-econo­mici».

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