martedì 27 marzo 2012
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La persecuzione contro la Chiesa nel Messico rivoluzionario, che probabilmente fu una delle pagine più dolorose del pontificato di Pio XI (1922-1939), è sicuramente oggi una delle meno conosciute. Achille Ratti è stato definito di volta in volta il Papa dei concordati, o dei grandi totalitarismi (comunismo, fascismo, nazismo) e, più raramente, il Papa dell’Azione Cattolica. Pochi però hanno saputo cogliere l’importanza che la questione messicana – piuttosto trasversale alle tematiche più generali del pontificato – ha rivestito per Pio XI, che le dedicò ben tre encicliche, una lettera apostolica e innumerevoli menzioni in altri documenti. In effetti papa Ratti poté assistere a tutte le fasi più drammatiche del conflitto pluridecennale fra lo Stato laicista erede della Rivoluzione – «totalmente infeudato alla Massoneria» come Pio XI sosteneva, non senza qualche ragione – e la Chiesa, in particolare la guerra civile che per quasi tre anni (1926-1929) vide alcune decine di migliaia di cattolici ribellarsi in armi contro il governo del generale Plutarco Elías Calles, deciso ad applicare alla lettera le norme antireligiose contenute nella Costituzione di Querétaro del 1917.
Fino al 1926 tali norme, come l’articolo 130 che negava personalità giuridica alla Chiesa e attribuiva ai governatori dei vari Stati della Federazione la facoltà di determinare il numero massimo di sacerdoti autorizzati a esercitare il ministero, erano spesso rimaste sulla carta, secondo un compromesso tacito che la Chiesa aveva già sperimentato sotto il regime di Porfirio Díaz (1876-1910) e avrebbe ancora conosciuto a partire dalla fine degli anni Trenta. La volontà di applicare integralmente il dettato costituzionale esacerbò oltre ogni limite le tensioni già presenti e fu per questo la causa principale dell’esplosione della «Cristiada». Combattendo al grido di «¡Viva Cristo Rey!» (da cui l’appellativo ironico cristosreyes e successivamente cristeros), i cattolici in armi identificavano la propria causa con quella della Chiesa perseguitata e opponevano alle pretese dello Stato la regalità di Cristo, che non a caso fu una delle note dominanti del pontificato rattiano. Quella di combattere non era tuttavia l’unica scelta possibile. Vi fu anche chi, come l’arcivescovo di Veracruz Rafael Guízar y Valencia (canonizzato da Benedetto XVI nel 2006) perseguì con coerenza la strada della moderazione, e si oppose per questo alla sospensione del culto pubblico, già utilizzata sporadicamente in alcune diocesi come forma estrema di protesta nei confronti delle autorità civili. Sotto la pressione degli ambienti cattolici più intransigenti, tale misura fu approvata ed estesa a tutto il Paese nel luglio 1926 da alcuni vescovi – come quello di Tabasco Pascual Díaz y Barreto, poi divenuto arcivescovo di Città del Messico – e venne sostanzialmente imposta a tutti gli altri con un’operazione dai contorni ancora poco chiari. Anche la sospensione del culto è da considerare una causa prossima dello scoppio del conflitto cristero. In quell’occasione Pio XI, contro il parere del segretario di Stato Pietro Gasparri, approvò la decisione dell’episcopato, convinto di interpretare i sentimenti della maggioranza dei vescovi, del clero e dei fedeli. A partire da quel momento, però, in Messico non si sarebbe più celebrata la messa nelle chiese per tre anni, fino a quando i vescovi, con l’approvazione della Santa Sede e la fondamentale mediazione statunitense, raggiunsero un modus vivendi con il governo, che di fatto segnò l’epilogo del conflitto armato. I cristeros, che a prezzo di migliaia di vite avevano voluto difendere con le armi la libertas Ecclesiae convinti di essere i legittimi rappresentanti degli interessi cattolici, non furono invitati a prendere parte ai negoziati. Gli accordi (arreglos) del 21 giugno 1929 segnarono per questo una ferita difficilmente rimarginabile nella Chiesa messicana. Sul tema Pio XI sarebbe ritornato il 28 marzo 1937 nell’enciclica Firmissimam constantiam, pubblicata a pochi giorni dall’enciclica sulla Chiesa in Germania Mit brennender Sorge (14 marzo) e da quella sul comunismo ateo Divini Redemptoris (19 marzo), a testimonianza della lettura tendenzialmente unitaria delle ideologie anticristiane svolta dal magistero di Ratti.
Il documento pontificio rivolgeva alla Chiesa messicana anzitutto un invito al rinnovamento interiore e sollecitava una maggiore cura nella formazione del clero e del laicato e un più convinto sviluppo dell’azione caritativa e sociale, aspetti ritenuti prioritari rispetto a qualsiasi altra preoccupazione di tipo politico. Pio XI insistette d’altra parte per menzionare il problema della legittimità della difesa armata dei cattolici, suscitando ancora una volta perplessità nella Segreteria di Stato. Al riguardo il Papa, con una formulazione destinata a essere ripresa nei decenni successivi dal magistero sociale della Chiesa, non condannò in principio la ribellione in armi contro un potere che fosse insorto «contro la giustizia e la verità al punto di distruggere le fondamenta stesse dell’autorità», ma ne fissò con chiarezza i termini che potevano giustificarla. Alcuni hanno creduto di vedere nelle parole di Pio XI una legittimazione ex post del movimento cristero. Si può tuttavia ritrovare anche nella Firmissimam constantiam l’impostazione pragmatica più volte adottata dalla Santa Sede nelle vicende messicane: «È naturale che, quando le più elementari libertà religiose e civili vengono impugnate, i cittadini cattolici non si rassegnino senz’altro a rinunziarvi. Tuttavia la rivendicazione anche di questi diritti e libertà potrà essere più o meno opportuna, più o meno energica, a seconda delle circostanze».​
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